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Dentro Deliveroo

Eugenio Cau

Così funziona l’algoritmo della compagnia di consegne che vuole diventare una “food company”, ma deve difendersi dalle critiche

La prima cosa importante che si impara quando si entra nel quartier generale di Deliveroo a Londra, la prima cosa che senti dire da Joe Carberry, il capo della comunicazione dell’azienda, dopo le presentazioni e le formalità è: “Deliveroo is a food company”. La frase continua con “…powered by technology”, che significa: sostenuta, resa possibile dalla tecnologia, ma l’accento è tutto sul food, sul cibo. Deliveroo è una compagnia che ruota attorno al cibo, nasce dalla passione per il cibo del suo fondatore, Will Shu, un ex analista finanziario che odiava dover pranzare alla scrivania masticando sandwich gommosi. Quando Shu ha cominciato con Deliveroo faceva lui stesso le consegne, e continua a farlo ogni tanto ancora oggi, pur essendo ormai il cofondatore e ceo di una società con una valutazione di mercato stimata a oltre due miliardi di dollari. Shu è famoso negli uffici londinesi di Deliveroo perché talvolta si presenta con enormi cartoni di pizza per gli spuntini aziendali, e il suo physique du rôle da gourmet si distingue piuttosto bene anche in foto. Nel quartier generale di Cannon Street l’ossessione per il cibo è appesa più o meno a tutte le pareti: nell’enorme open space arredato con le consuete amenità della startup tecnologica – divanetti, caffetteria chic, computer portatili ultimo modello, mobilia di design con colori pastello, terrazza con vista London Bridge – le poche stanze dotate di una porta hanno tutte il nome di un cibo: ice cream, taco, jalapeño. E quando ci si siede al tavolo con Joe Carberry e una manciata di dirigenti di Deliveroo per parlare di come vanno le cose, la prima slide che mostrano dice: “We aim to become the definitive food company”, vogliamo diventare l’azienda di cibo per antonomasia, e si vede un’immagine che rappresenta il concetto: l’azienda di internet è Google, l’azienda della musica è Spotify, l’azienda della tecnologia di consumo è Apple, l’azienda di ecommerce è Amazon, e Deliveroo intende entrare nel club diventando l’azienda del cibo.

 

Nei grandi open space di Londra, le poche stanze dotate di una porta hanno tutte il nome di un cibo: ice cream, taco, jalapeño

Eppure nel discorso comune Deliveroo, assieme ad altre realtà cugine come Uber Eats, Glovo o Just Eat, non è considerata una “food company”. Nella conversazione quotidiana Deliveroo è identificata con le consegne a domicilio, che significa: azienda di logistica. Nel discorso mediatico invece Deliveroo è quasi sempre definita come una startup della gig economy, che significa: azienda di tecnologia. Le definizioni ricalcano piuttosto bene i due elementi distintivi di Deliveroo: il primo sono i rider, i lavoratori che fanno le consegne, e che sono 60 mila nel mondo e circa 8.500 in Italia. Il secondo è l’algoritmo, che di recente è stato riscritto e che dentro a Deliveroo chiamano amichevolmente Frank, da un personaggio della serie tv “It’s Always Sunny in Philadelphia”.

 

Frank è ciò che distingue Deliveroo da una semplice azienda di pony express. Loro hanno un centralino, Deliveroo ha un algoritmo, che consente all’azienda di espandersi in centinaia e centinaia di città (in Italia sono 154) senza aver bisogno di troppe infrastrutture: dopo aver inserito i ristoranti nella piattaforma e dopo aver fatto il reclutamento dei rider che dovranno fare la consegne, a tutto il resto pensa Frank usando il machine learning: a selezionare quale rider farà una certa consegna, a calcolare quanti rider sono disponibili in una determinata zona, a raggruppare le consegne in modo che siano più comode per il rider e che tutto il cibo arrivi caldo a destinazione, a prevedere quanto tempo impiegherà un ristorante a preparare l’ordine, a mettere assieme più ordini dallo stesso ristorante o da ristoranti diversi, così che il rider non debba fare avanti e indietro in continuazione, a tenere conto del traffico e dei tempi di percorrenza. L’algoritmo tiene in considerazione anche la lunghezza delle singole strade e la possibilità che il rider debba affrontare salite troppo ripide nelle città collinari. Potremmo continuare. 

 

Ora, per fare un po’ di chiarezza, e per chi non avesse mai usato il servizio, ecco come funziona tipicamente Deliveroo: il consumatore usa la app per fare un ordine, per esempio una porzione di pollo tandoori dal ristorante indiano Taj Mahal. Deliveroo invia un messaggio con l’ordine al ristorante Taj Mahal, e contestualmente l’algoritmo sceglie qual è il miglior rider a disposizione in quel momento per fare la consegna. Diciamo che il nostro rider si chiama Giovanni. Giovanni riceve una notifica sul suo smartphone, dove ha installato la app di Deliveroo. Vede che deve andare al ristorante Taj Mahal, prelevare una porzione di pollo tandoori e portarla a casa del cliente. Giovanni vede dove si trova il ristorante e dove si trova la casa del cliente, così sa fin da subito quanta strada dovrà fare. Può decidere di accettare l’ordine, e a quel punto deve mettersi in sella alla sua bici o al suo motorino, oppure può decidere di rifiutarlo. Questo è un punto importante, perché fino a qualche anno fa (e in alcuni casi ancora adesso) l’indirizzo del cliente era tenuto nascosto ai rider. Sapevi che dovevi recapitare una consegna ma non sapevi dove, e questo era un grosso problema per i rider, che scoprivano il luogo in cui avrebbero dovuto portare il pollo tandoori soltanto dopo averlo prelevato dal ristorante. Adesso per fortuna le cose sono cambiate: se il cliente vive in cima a una collina e Giovanni ha una bicicletta senza cambio, può rifiutare l’ordine. A quel punto l’algoritmo trova immediatamente un altro rider disponibile, che va al ristorante, prende il pollo e lo consegna. Il rider può dover fare più consegne in un giro solo, e l’algoritmo in teoria dovrebbe riuscire a ottimizzare i viaggi.

 

Non si è ancora esaurito il dibattito sul modello di lavoro proposto dalla gig economy: precario&schiavistico oppure flessibile&smart?

Da questo racconto si noterà che il principale rapporto di lavoro del rider è con Frank l’algoritmo. Frank sceglie il rider, gli propone un incarico, trova un eventuale sostituto. E’ quasi come se Frank fosse il supervisore dei rider. Ma se dite questa cosa ai dirigenti di Deliveroo, quelli si irrigidiscono.

 

Il rapporto tra i rider e l’algoritmo è complicato, e dire che l’algoritmo è il supervisore (o, peggio, il capo) di migliaia di lavoratori evoca immagini distopiche di macchine onniscienti e fredde che determinano il destino di uomini inermi – secondo i pessimisti dell’intelligenza artificiale questo è ciò che ci attende, e i rider della gig economy sono stati i primi a cadere sotto al controllo delle macchine. I rider si lamentano da sempre che la loro principale interazione lavorativa è con una “black box”, con un algoritmo di cui è impossibile capire il funzionamento e che sputa ordini univoci che possono essere accettati o rifiutati, nient’altro. L’algoritmo decide quante consegne devono fare, quanto lunghe e quanto difficili, e dunque decide quanti soldi porteranno a casa alla fine della giornata, visto che i rider vengono pagati a consegna. E’ facile capire che i rider non amino l’algoritmo, e che le teorie su discriminazioni e preferenze proliferino in continuazione.

 

I manager di Deliveroo sono granitici su questo punto: l’algoritmo non fa discriminazioni. Secondo loro, le performance dei rider non rientrano nei parametri che l’algoritmo considera per assegnare una consegna: i rider più lenti non sono penalizzati rispetto a quelli più veloci ed efficienti. Allo stesso tempo, le caratteristiche personali del rider non sono considerate: l’algoritmo non distingue tra uomini e donne, tra vecchi e giovani. Se un rider rifiuta una consegna, l’algoritmo non ne tiene conto e non lo penalizza per aver rifiutato. Non ci sono sistemi automatici nemmeno per verificare eventuali infrazioni. L’algoritmo di Deliveroo è stato reso così insensibile alle performance di chi fa le consegne che se il nostro rider Giovanni il pollo tandoori se lo mangia anziché consegnarlo al cliente, in linea teorica il sistema non ha modo di averne conoscenza e continuerà ad assegnargli nuove consegne come se nulla fosse accaduto (ovviamente Giovanni verrà beccato perché il cliente che non riceve il pollo tandoori segnala il problema a Deliveroo, ma questo richiede un intervento umano: l’algoritmo, da solo, non ha modo di accorgersene). Il sistema non discrimina nemmeno quando si tratta di assegnare una consegna: se c’è più di un rider in attesa nella stessa zona (succede spesso) l’unico criterio usato dall’algoritmo per decidere a quale rider assegnare il lavoro è il mezzo di trasporto utilizzato (bicicletta o motorino). Se tutti hanno la bicicletta, o tutti hanno il motorino, l’algoritmo sceglie a caso, dicono i dirigenti di Deliveroo. Questo è un bene, perché in un sistema di lavoro a cottimo come è quello della gig economy la produttività non può essere misurata come si farebbe con un lavoro a paga oraria.

 

Frank è ciò che distingue Deliveroo da un’azienda di pony express. Loro hanno un centralino, Deliveroo ha un algoritmo

A proposito: non si è ancora davvero esaurito il dibattito sul modello di lavoro proposto da Deliveroo e dalla gig economy. E’ precario&schiavistico, come sostengono i sindacati, Luigi Di Maio e quei rider che periodicamente organizzano scioperi e proteste, oppure flessibile&smart, come sostengono le aziende? Secondo sondaggi interni a Deliveroo, oltre il 60 per cento dei rider appoggia la seconda opzione, chiede flessibilità e preferisce essere pagato per ogni consegna fatta piuttosto che un fisso orario: circa la metà dei rider studia, un terzo ha un altro lavoro e vuole arrotondare, altri fanno le consegne per tamponare un periodo limitato di disoccupazione. Queste categorie di rider preferiscono non avere vincoli: lavoro il tempo che mi serve, poi smetto. Questo ritratto della forza lavoro di Deliveroo dà ragione all’idea che la gig economy non è fatta per fornire occupazione stabile: è un datore di lavoretti occasionali in cui i lavoratori sono inquadrati come indipendenti. Ma la gig economy non è tutta così. Ci sono fenomeni molto evidenti di rider che vorrebbero da Deliveroo un lavoro stabile, garantito e a tempo pieno e chiedono, spesso protestando, la prevedibilità di un impiego tradizionale. In teoria la gig economy non è fatta per questo. Deliveroo dovrebbe essere un lavoro per studenti che cercano di arrotondare, non per cinquantenni disoccupati, dottorandi affamati e immigrati con quattro figli che non trovano lavoro stabile. E Deliveroo non ha colpa se lo stato del mercato del lavoro è tale da trasformare un datore di lavoretti occasionali in un grande bacino occupazionale per disoccupati in economie mature. Ma queste dinamiche generano anche un’altra domanda, che inevitabilmente si pone. Se Deliveroo facesse ciò che è nato per fare, vale a dire distribuire lavoretti occasionali a una manodopera scarsa e poco motivata, sarebbe ancora Deliveroo? La gig economy non ha colpa per lo stato dell’economia. Ma con un’economia diversa ci sarebbe la gig economy?

 

Il dibattito, dicevamo, è ancora acceso, ma nel frattempo Deliveroo mostra di avere imparato molte lezioni. Frank l’algoritmo risponde a numerose criticità espresse nei confronti della gig economy in questi anni e cerca di migliorare il servizio per il consumatore che ordina il cibo tenendo conto delle esigenze del rider. Se i rider temono di dover fare consegne a rotta di collo trascurando la sicurezza perché altrimenti l’algoritmo li penalizza, questo problema non dovrebbe porsi, perché il sistema non considera tra i criteri di assegnazione le performance dei singoli. I problemi per Deliveroo e per tutta la gig economy non sono facili da risolvere, a partire dalla questione esiziale dello stato dei lavoratori: magistrati e legislatori di mezzo mondo vorrebbero che i rider della compagnie di consegna, così come i driver di Uber e Lyft, diventassero dipendenti salariati. C’è anche un problema di modello di business ancora da definire, ché nessuno ha capito quanta crescita e quanta espansione in nuovi mercati serviranno per tamponare le perdite. Negli ultimi anni Deliveroo ha avuto tassi di crescita a due e perfino a tre cifre. Un buon inizio per chi vuole diventare la più grande “food company” del mondo.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.