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Una vita iperconnessa, disordinata e felice con l'Apple Watch

David Allegranti

L'orologio di Cupertino sembra una macchina infernale che tempesta di notifiche chi lo indossa al polso, specie adesso che fa anche le telefonate. Una soluzione per sottrarsi all’odiato detox digitale

Questo articolo è apparso nel primo numero del Foglio innovazione, il mensile a cura di Eugenio Cau. Il secondo numero lo troverete in regalo con il Foglio di martedì 5 marzo.

 


 

Sto uscendo di casa, sento vibrare il polso sinistro. Il tremolio è accompagnato da un trillo inconfondibile. “Cos’è che mi suona al braccio?”, penso. Ancora non ci ho fatto l’abitudine, nonostante usi l’Apple Watch da oltre un mese. E’ Luciano Capone che mi sta chiamando. Pigio rispondi e parliamo per un po’, gli è venuta in mente un’idea per un pezzo su Pisa. Mi metto le cuffiette perché è da cafoni far sentire le telefonate a tutti (in treno ormai va di moda ascoltare le note vocali con l’altoparlante e berciare le risposte cosicché tutto il vagone le senta).

 

A un certo punto, quando sono a metà strada, mi accorgo di aver lasciato il cellulare a casa e impreco perché devo risalire sul fottuto tram di questa fottutissima città. Il nuovo Apple Watch ha una fondamentale, utilissima differenza rispetto ai modelli precedenti. E’ indipendente dall’iPhone, perché con una e-sim puoi replicare il tuo numero e ricevere le chiamate, i messaggi, i tweet, per adesso l’unico operatore supportato è Vodafone. Il problema – ma è un problema tuo, non dell’Apple Watch – è che può capitare di dimenticarti il cellulare a casa se sei abbastanza rincoglionito. I modelli precedenti non avevano questa preziosa funzione, sicché potevi rispondere alle telefonate ma solo se il cellulare era nelle vicinanze. Con questo invece se vuoi andare a correre o a giocare a calcio senza il peso del telefono lo puoi fare, perché è connesso autonomamente.

 

Con Luciano, intanto, parliamo ancora del consigliere comunale della Lega a Pisa che è rimasto seduto con aria di sfida durante le commemorazioni per la Shoah e della deriva sovranista pisana. La conversazione va avanti per un po’, poi lo saluto e pigio per chiudere la telefonata.

 

Mi arrivano le notifiche di un tweet che ho fatto e che sta girando un po’ in rete: “Santo cielo, è arrivato il bùm economico e non ho niente da mettermi”. Qualche insulto, roba di ordinaria amministrazione. La app per Apple Watch ti fa vedere chi ti menziona ma puoi mettere solo un cuoricino, “mi piace” e non retwittare, come invece puoi fare con qualsiasi altra versione di Twitter. Non è granché. Così come non è granché la app di WhatsApp – mi sono appena arrivati dei messaggi da una fonte – che non è autonoma ma replica semplicemente ciò che arriva sull’iPhone. Il risultato è che per leggere i messaggi integralmente sull’Apple Watch – e non ricevere una semplice notifica di messaggio – devi avere le anteprime anche sull’iPhone, il che può attirare la curiosità di qualche impiccione (anche se, è vero, lo schermo dell’iPhone non si illumina quando riceve un messaggio ed è collegato Apple Watch). I messaggi li puoi scrivere con il dito, disegnando le lettere sullo schermo oppure dettarli.

 

Lo sviluppo di Siri però pare essere stato bruscamente interrotto – non solo sull’Apple Watch ma anche sull’iPhone – vista la qualità dell’intelligenza artificiale, che è largamente superata da un qualsiasi Google Home, al momento molto più efficiente. Se Apple dunque vuole puntare sui comandi vocali, non può che migliorare i suoi assistenti, un tempo all’avanguardia, oggi non sufficienti per competere con Google.

 

Mentre sono di nuovo sulla via verso il giornale ricevo altre notifiche; un messaggio di Pasquale Annicchino, l’email di un amico, l’invito a una presentazione. Con tutte codeste notifiche, mi viene in mente un pezzo che ho letto di recente sul Financial Times dell’economista twittarolo Tim Harford (in Italia qualche mese fa è stato pubblicato da Egea “Che casino! Il potere del disordine per tirar fuori il meglio di noi stessi”). Sempre iperconnesso fra Twitter e social media vari, nell’articolo racconta il suo “digital reboot”.

 

Gli articoli sul detox digitale vanno di moda da qualche tempo; di solito chi scrive racconta di aver annunciato prima sui social un periodo di assenza da Facebook e dintorni, che nel caso di Harford si è tradotto nel trasformare i suoi account in uno strumento per un semplice flusso con la condivisione dei suoi articoli sul Financial Times, senza alcuna interazione. Insomma, è uscito dal gruppo per un po’. E lo ha motivato, a differenza di altri, spiegando di aver applicato i suoi studi sul comportamento economico.

 

Ora, smettere di twittare attivamente fa risparmiare in effetti tempo, non solo perché 40 mila tweet – quelli di Harford al momento della pausa – corrispondono a parecchi libri scritti ma anche perché – e l’Apple Watch che ho al polso me lo dimostra quotidianamente – c’è da tenere conto anzitutto delle interazioni e quindi eventualmente delle notifiche. Il meccanismo regge, dal punto di vista dei social, solo se tutti interagiscono. Naturalmente se sei il Papa può permetterti di lasciare l’account ufficiale del pontificato nelle mani di professionisti che si limiteranno a diffondere alcuni precisi messaggi senza mai rispondere a nessuna sollecitazione. Ma nella bolla delle persone più o meno normali, il grado di partecipazione al dibattito pubblico fa la sua differenza. Se tutti parlassero unilateralmente senza mai partecipare al dibattito, la conversazione lentamente morirebbe. Il problema è quando l’interazione e la partecipazione diventano eccessive. Così come diventa eccessiva la dipendenza dalle sollecitazioni. I retweet possono anche diventare una droga allo stesso modo di chi, lavorando in tv, il mattino dopo la trasmissione compulsa i dati Auditel.

 

Ora, descritta così, l’esperienza con l’Apple Watch potrebbe risultare infernale. Ma io penso che ci si possa sottrarre alle disattenzioni senza scappare nell’iperuranio. Evgeny Morozov, autore de “L’ingenuità della rete” che da anni si oppone ai tecnoentusiasti convinti che internet sia la panacea di tutti i mali senza rendersi conto delle conseguenze, una volta ha raccontato che quando deve scrivere o studiare e ha bisogno di stare estremamente concentrato, chiude il suo telefono e il modem in una piccola cassaforte a tempo: “Regolo il tempo dell’apertura e dimentico ogni distrazione”.

 

Mentre penso a queste cose, metto un po’ di musica. L’Apple Watch ha una memoria interna da 16 giga, c’è spazio per qualche migliaio di canzoni. Cerco Shallow, tratta dalla colonna sonora di “A star is born”, che spero vinca molti premi agli Oscar. Un’altra notifica. Siccome sto camminando da dieci minuti, l’orologio pensa che io mi stia allenando e vuole salvare la “camminata outdoor”, come se ci fosse chissà quale prestazione agonistica da immortalare, il che per carità potrebbe essere utile qualora dovessi ricominciare a fare attività fisica. Un’altra notifica. L’Apple Watch mi ricorda che ho un’intervista da fare nel pomeriggio. Ma io me l’ero già scritta sul taccuino. A mano, perdio.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.