Evgenij Morozov

L'Europa deve reagire ai monopoli tecnologici. Intervista a Morozov

Daniele Lettig

I cittadini devono riprendere il controllo della proprietà dei dati, dice il sociologo bielorusso. Il prossimo terreno di confronto è l’uso delle applicazioni dell’intelligenza artificiale

Milano. Le fake news? Un falso problema. O meglio, una questione marginale che “dimentica il vero elefante nella stanza: il modello economico del capitalismo digitale, fondato sul processo che io chiamo ‘estrattivismo dei dati’”. Lo dice con voce pacata ma decisa Evgeny Morozov, il sociologo e giornalista bielorusso da anni tra i critici più acuti delle evoluzioni del web e dell’economia digitale, rispondendo alle domande del Foglio prima di salire sul palco della fondazione Feltrinelli di Milano, per tenere una lezione dal titolo “We the Media”.

 

Il discorso pubblico sulle bufale, sostiene Morozov, che attualmente sta svolgendo un dottorato ad Harvard, “si è fossilizzato sui modi di identificare e mettere al bando chi le scrive e le diffonde, perdendo di vista la ragione per cui si propagano così tanto”: cioè “il fatto che generano click e di conseguenza fanno crescere i ricavi delle piattaforme digitali”, diversamente dagli anni Novanta, quando ancora non c’era modo di monetizzare quel traffico. E chi ci guadagna di più sono i cinque giganti. Amazon, Apple, Facebook, Google e Microsoft, messe assieme a ottobre 2017 valevano oltre 3.300 miliardi di dollari: “Delegare a queste società la lotta alle notizie false non fa che perpetuare il modello di business che le origina”. Un sistema la cui base è l’accumulazione e l’elaborazione del maggior numero possibile di dati, raccolti grazie a uno scambio che “negli ultimi dieci anni, da quando è iniziata l’èra dell’estrattivismo, ha portato certamente dei vantaggi ai cittadini-utenti”. Come l’avere a disposizione importanti servizi gratuiti o molto economici, finanziati proprio dalla – volontaria – cessione a queste società dei dati relativi ai nostri interessi o ai nostri comportamenti di acquisto. 

 

All’inizio, le aziende se ne servivano per obiettivi immediati, come affinare i target degli annunci pubblicitari o consigliare meglio i prodotti più interessanti per i clienti. Poi, però, hanno capito che i dati potevano costituire una ricchezza fondamentale per un altro scopo: costruire e implementare intelligenze artificiali (IA) basate sul “deep learning”, il processo attraverso il quale i sistemi informatici – analizzando enormi quantità di dati – imparano a classificarli e a usarli per produrne altri simili. Una tecnologia che ha innumerevoli applicazioni, dai servizi di traduzione online al riconoscimento facciale, fino alla ricerca scientifica o alla guida autonoma dei veicoli. Qui c’è un primo problema: finché i dati rimarranno proprietà di poche aziende, “gli investimenti nelle applicazioni più importanti dell’IA, come la ricerca di nuove cure contro le malattie o la gestione del traffico automatizzato”, saranno appannaggio di società su cui non c’è un controllo democratico.

 

Il ragionamento di Morozov, però, si spinge più in là: “I nostri dati – spiega – saranno molto importanti per altri cinque o dieci anni, ma una volta che le intelligenze artificiali saranno state messe a punto, il terreno di confronto diventerà il loro utilizzo, e non più l’estrazione dei dati degli utenti: per la maggior parte, essi saranno ormai ‘noiosi’ e prevedibili dalle macchine”. Con due conseguenze: intanto la possibilità concreta che i servizi che siamo abituati a considerare gratuiti, non lo siano più. Poi, una radicale ristrutturazione del sistema economico, che sarà sempre più dominato dalle società leader nello sviluppo dell’IA, oggi tutte basate negli Stati Uniti e in Cina. Un cambiamento geopolitico di cui il sociologo ha tracciato un esempio dal palco: “Se l’Europa non reagirà presto”, è la sua profezia, “si troverà con un settore industriale del tutto dipendente dagli altri. Pensate all’industria dell’auto: quando i suoi asset principali saranno basati sull’IA, perché gli investimenti dovrebbero andare verso la Germania e non negli USA?”

 

“Il mio pessimismo non riguarda la tecnologia”, spiega dunque Morozov, “ma la classe politica, specialmente quella europea, che continua a muoversi nella direzione sbagliata: gli accordi con Facebook e Google, come quelli firmati da Emmanuel Macron giorni fa, non fanno che accrescere la loro posizione dominante. Bisognerebbe invece fare in modo di sviluppare servizi di intelligenza artificiale che non siano proprietà di queste aziende”.

 

Una sfida “che richiede coraggio” e che non si risolve con semplici norme anti-trust. Al contrario, è la conclusione di Morozov, occorre creare “un diverso sistema legale per la gestione dei dati: non devono più appartenere di default a società private, ma diventare patrimonio comune delle comunità locali o di associazioni di cittadini, che così li controllerebbero da vicino”. Agli stati e alla Commissione europea spetta invece un altro compito: “Creare le condizioni affinché lo sviluppo e l’applicazione dell’intelligenza artificiale possa coinvolgere anche altre aziende o organizzazioni non governative”, per contrastare il monopolio dei giganti del web.