Oltre il dibattito sterile sui robot c'è il solito mondo che avanza
Ragionare sulle conseguenze dell'uso della tecnologia sul mercato del lavoro rischia di essere un esercizio inutile. Mentre si combatte la guerra dei numeri, dell’allarmismo o dell’ottimismo, i processi socioeconomici non si fermano
Roma. Dopo che l’americana BlackRock ha deciso di usare i computer per guidare i suoi fondi azionari, è ormai chiaro che un nuovo spettro si aggira per il mondo. Non si tratta del comunismo, ma dell’algoritmo, più in generale della tecnologia, dei robot, e delle relative conseguenze sul lavoro. C’è poco di nuovo in questo incubo contemporaneo, tanto che si potrebbero riempire manuali analizzando le teorie elaborate negli anni. Il tema sta generando uno scontro dialettico tra le posizioni di chi vede imminente la fine del lavoro e chi vede nella tecnologia una possibilità di rinascita, se non di liberazione dell’uomo dal peso del lavoro. Il limite del dibattito sta però nel fatto che mentre si combatte la guerra dei numeri, dell’allarmismo o dell’ottimismo, i processi socioeconomici non si fermano. E non si fermerebbero neanche se si pensasse di avere una risposta definitiva sulle previsioni.
Alla luce di questo scenario è interessante uno studio rilanciato dal National bureau of economic research degli Stati Uniti: due economisti del Mit, che lo scorso anno pubblicarono un paper dal sapore molto diverso, analizzano l’impatto dei robot sull’occupazione negli Stati Uniti dal 1990 al 2007. I risultati mostrano un impatto negativo su tutte le professioni considerate e per tutti i livelli di istruzione. Gli studiosi isolano le conseguenze dei robot da quelle dell’importazione di merci dalla Cina, dalle delocalizzazioni, dal declino dei lavori routinari e giungono a sostenere che un nuovo robot ogni mille persone riduce il rapporto tra popolazione e occupati per una cifra tra lo 0,18 e lo 0,34 per cento. Lo studio offre pochi alibi a coloro che difendono la tecnologia con argomenti deboli. Allo stesso tempo, però, male farebbero gli allarmisti a usarlo come arma di diffusione di massa di pessimismo tra i lavoratori. Al contrario, questi dati ci aiutano a capire quale non sia il problema. E il problema oggi non è scoprire se e quanti lavori spariranno né indagare se la tecnologia possa avere impatti negativi sui lavori esistenti.
Basta uno sguardo sull’evoluzione dei settori produttivi negli ultimi 150 anni per vedere come proprio la tecnologia, insieme a decine di altre dinamiche, abbia ridotto l’occupazione prima nell’agricoltura, poi nella manifattura e, dopo ancora, in alcuni servizi. E così continuerà a essere. Il problema è che si costruisce un dibattito su un mondo che non c’è più. Ragioniamo di posti di lavoro mentre questo si muove verso collaborazioni, cicli, logiche di rete tra imprese. Lo aveva intuito Marco Biagi già 15 anni prima che il Jobs Act riproponesse la centralità del lavoro subordinato a tempo indeterminato che è stato il paradigma del Novecento industriale e della fabbrica nordista. Utilizziamo suddivisioni geografiche chiare e nette, quando le global value chains si scompongono e ricompongono quotidianamente. Facciamo analisi delle professioni quando i lavori nascono e muoiono con una fluidità imprevedibile. Per non parlare dell’incidenza oggi nei mercati del lavoro della demografia, delle problematiche ambientali, delle nuove preferenze individuali, che incidono tanto e più della tecnologia. Insomma, pare che fissare il dito ci stia facendo perdere di vista la luna, e tutte le maree che muovono flutti che cerchiamo di fermare con mani vecchie. Con questo non si vuole continuare il benaltrismo con altri mezzi, ma disancorare un dibattito che è dannoso e sterile in termini di idee e proposte. Siamo di fronte a un cambiamento storico, che come tale non può essere lasciato in balìa di mani invisibili sempre più riconoscibili o di stati nazionali animati da protezionismo e desiderio di conservazione. Occorrerebbe ripartire dall’osservazione dei fatti, dal dialogo con i sistemi produttivi, coi corpi intermedi, le imprese e i lavoratori. Potremmo scoprire che qualcuno è già più avanti di noi, e non è un robot.
Limiti e concorrenza