Nicolò Zaniolo (foto LaPresse)

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L'ennesima occasione sprecata da Nicolò Zaniolo

Andrea Trapani

La sua parabola, passata dall’affermazione in giallorosso ai titoli dei giornali sui fatti di cronaca, è il racconto di una carriera mai davvero esplosa. Un campione non è chi fa il colpo a effetto, ma chi trasforma le proprie doti in un esempio per gli altri

C’è sempre un momento, in ogni carriera tormentata, in cui la linea tra sfortuna e responsabilità personale si fa netta. Nel caso di Nicolò Zaniolo, quel momento sembra arrivare più volte di quanto dovrebbe. L’ultimo episodio, l’aggressione verbale (e forse non solo) ai danni di alcuni ragazzi della Primavera della Roma nella semifinale di ieri giocata al Viola Park è l’ennesimo inciampo di un talento che ha perso la propria strada. E dire che quest’anno ha avuto due possibilità in pochi mesi, quelle da non perdere dopo una carriera da “dannato”. I sei mesi con Gasperini non sono andati bene, lasciare l’Atalanta per la Fiorentina poteva essere la sua rivincita ma non è stato così.

Proprio a Firenze, dove c’è stato già il rompete le righe di fine stagione, il giocatore ha aggiunto un altro poco edificante episodio al suo curriculum da “cattivo ragazzo”.

Zaniolo ha affidato ai social la sua versione: ammissione di responsabilità, scuse, negazione di qualsiasi atto fisico.

   

  

Parole misurate, forse sincere, forse strategiche. Ma il nodo resta: perché uno come lui – passato da promessa del calcio italiano a eterno incompiuto – continua a inciampare?

 

Il mito del talento

La risposta più comoda è quella del “genio incompreso”. Zaniolo è stato etichettato, sin dai tempi della Roma, come un predestinato. Lo era già prima, passando proprio da Firenze e dalla sponda nerazzurra di Milano. E come ogni predestinato, si è forse convinto che bastasse il talento a giustificare tutto: gli alti, i bassi, le pause, le esplosioni di rabbia.

Lo psicologo K. Anders Ericsson ha scritto nelle sue ricerche che il talento naturale è un mito romantico, non una realtà scientifica. Studiando violinisti, atleti e scienziati, ha scoperto che ciò che distingue i campioni non è un dono, ma un processo. Allenamento quotidiano, pratica deliberata, resilienza. Ray Allen, leggenda del basket, si infuriava quando gli attribuivano ‘un tiro perfetto per natura’: “Non sminuite l’impegno che ci metto ogni giorno”.

Zaniolo, al contrario, sembra bloccato da quel mito. Non è il solo. Come spiega lo psicologo sportivo Pietro Trabucchi, lo sport italiano (e non solo) è ancora intriso di quella cultura che cerca “il talento” invece di costruirlo. I giovani promettenti vengono coccolati, lodati, elevati a futuri campioni, e poi lasciati soli di fronte alle prime vere difficoltà. Il talento diventa un’armatura fragile: protegge finché non si rompe.

Un percorso mai iniziato

La mentalità conta più del talento. Carol Dweck, professoressa a Stanford, ha dimostrato che chi ha un growth mindset, ovvero una mentalità orientata alla crescita, non solo apprende di più, ma sbaglia meglio. L’errore non è un fallimento: è parte del processo. Ma chi si sente “speciale” spesso non accetta l’errore. Lo rifiuta, lo nega, lo delega. Ecco perché Zaniolo delude. Non (solo) per quel che fa, ma per quel che continua a non imparare.

La sua parabola, passata dall’affermazione in giallorosso ai titoli dei giornali sui fatti di cronaca, è il racconto di una carriera mai davvero esplosa. Un campione non è chi fa il colpo a effetto, ma chi trasforma le proprie doti in un esempio per gli altri. Non basta Instagram per scriverlo: senza metodo, senza autocritica, senza quella fatica silenziosa che distingue chi vuole durare da chi si accontenta di brillare a tratti. La vera occasione sprecata non è l’episodio in sé, ma l’ennesima chance mancata di cambiare rotta.

Zaniolo ha ancora tempo per farlo, con buona probabilità ancora una volta lontano da Firenze. Ma ogni esplosione incontrollata, ogni illusione di essere già arrivato allontana quel momento. E trasforma il suo talento in una lenta e continua malinconia.

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