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professionisti e non

L'errore di Nicolò Zaniolo

Giovanni Battistuzzi

Il calciatore si è autoescluso dalla partita contro lo Spezia. Vorrebbe andarsene, ma ha scelto il modo peggiore per dimostrarlo. Mourinho, che di addii se ne intende, ha provato a fargli capire cosa un giocatore non deve fare

È mai semplice fare il calciatore a Roma. Per Rudi Völler era “un enorme atto di autocontrollo, una prova meditativa”. Descrisse così alla stampa tedesca le sue cinque stagioni alla Roma: dall’estate 1987 a quella 1992: 198 presenze, 68 gol totali, il soprannome di Tedesco volante. “Una città meravigliosa, una tifoseria appassionatissima, a tal punto attaccata ai colori da non concepire un attaccamento inferiore al loro”, sintetizzò. Difficile un tempo, ancor più oggi, in un calcio dove la forbice tra le squadre che possono offrire contratti molto remunerativi e le altre che possono essere non così munifiche si è allargata. Soprattutto è stato reso più semplice dal maggior peso che hanno i calciatori nelle trattative. I colori contano per chi il calcio lo vede da fuori, ma per chi è in campo il discorso è diverso. Serve talento, ma  – a parte per pochissimi privilegiati – non basta. Serve anche professionalità, allo stesso modo di ogni altro lavoro, solo che negli altri il pubblico che la giudica è parecchio più esiguo e soprattutto molto meno rumoroso e la possibilità di ricevere comprensione se si attraversa un periodo difficile è un po’ più alta.

 

Nicolò Zaniolo sta attraversando un momento difficile. E non solo alla Roma. È in quel periodo di transizione che tanti – tutti? – i calciatori attraversano, quello che li vede in mezzo al passaggio tra la consapevolezza di avere potenzialmente un grande futuro e quella di dover prima o poi dimostrare, con costanza, di poterlo davvero realizzare quel grande futuro. Non è facile affrontare questo momento, soprattutto non è facile affrontarlo soli contro tutti.

  

Certo è che Nicolò Zaniolo in questa situazione ci si è infilato da solo. O forse è stato mal consigliato, chissà. Certamente decidere di farsi da parte, di autoescludersi dalla partita contro lo Spezia, lo ha fatto passare agli occhi dei tifosi come un menefreghista e c’è nulla di peggio per un tifoso. Zaniolo ha rifiutato l’offerta di rinnovo – il suo contratto scadrà il 30 giugno 2024 e avere ancora un anno e mezzo di contratto e, di questi tempi, vuol dire che il giocatore ha un netto vantaggio nella contrattazione –, vuole andarsene, cambiare squadra, ha detto alla società di non avere la concentrazione giusta per giocare.

 

Tirarsi fuori, ammettere di non essere al meglio mentalmente, non aver paura di dimostrarsi fragile, sarebbe un gesto di maturità. Ma non va mai così nel calcio. Di solito non rispondere alle convocazioni è solo un ricatto che si fa alle società per far prevalere la propria volontà.

 

José Mourinho ha cercato di mitigare la situazione, ha usato per il ragazzo parole piene di comprensione, ha chiarito che per lui c’è sempre posto, ha fatto capire che è un giocatore importante. Sa benissimo il tecnico portoghese di avere un grande ascendente sulla tifoseria e cerca in questo modo di salvaguardare il calciatore. E salvaguardarsi. Cerca soprattutto di far capire a Zaniolo che esistono un piano pubblico e uno privato, un luogo dove si può ambire a migliorare la propria condizione (contrattuale o professionale) e uno dove invece va dimostrato di essere capace di rispettare un impegno. Perché è in fondo questo che un calciatore dev’essere: un professionista capace di negoziare un miglioramento contrattuale (o una cessione) senza dimostrare svogliatezza o finire in quel vortice di screzi e ricatti di chi è disposto a tutto pur di levare le tende da un posto. Senza cioè fare danno alla squadra e a se stesso. E questo ovunque. Soprattutto a Roma.

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