la seconda stella dell'Inter

Quello dell'Inter è anche uno scudetto alla carriera

Enrico Veronese

I nerazzurri hanno vinto la Serie A con la rosa più anziana del campionato nonostante un ottimo settore giovanile. Per molti dei protagonisti è un successo che premia anni di tanto lavoro

Anzianità fa grado, e fa scudetto. L’Inter ha guadagnato il ventesimo titolo italiano della sua storia, fregiandosi della seconda stella, con la rosa più anziana di tutto il campionato: i suoi 25 elementi infatti hanno un’età media che raggiunge i 28.8 anni, e scende a 28.2 – senza inficiare il primato – se si considerano anche i circa venticinque minuti che Ebenezer Akinsanmiro, classe 2004, ha totalizzato sostituendo Davide Frattesi al 77° minuto di Inter-Lecce. Non un record assoluto (la Juventus 2016-2017 ha concluso la stagione da detentrice con 29 anni e 246 giorni di media) ma un indicatore plastico del fatto che, almeno ad Appiano Gentile, il nuovo non avanza e si afferma l’usato sicuro. Altra storia rispetto al Milan che soffiò agli attuali campioni il tricolore 2022: l’organico affidato a Stefano Pioli si fregiò del successo a 25 anni e 344 giorni di media, nessuno così fresco nel nuovo secolo. Non vale nemmeno l’inverso, ovvero che un team poco esperto sia necessariamente sprovveduto di fronte alla Serie A: il Frosinone e l’Udinese guidano la classifica della verde età rispettivamente con 24.1 e 24.7 anni medi, ma sotto i 25 sta pure il Bologna che sta per coronare il sogno dell’Europa maggiore. Quindi, volendo, si può fare bene anche seguendo vie differenti.

Perché è questione di scelte societarie, compatibilità di mercato, politiche in accordo con l’area tecnica: l’Internazionale Football Club Milano 1908, negli ultimi anni, ha vinto tutto quello che c’era da vincere nelle categorie fino alla Primavera, dando ossature alle Nazionali Under e prestando virgulti che hanno fatto fortuna. Ma al Suning Center la prospettiva si inverte: nessuno del settore giovanile interista, se si eccettua la lunga parabola dell’ultrà Federico Dimarco per arrivare a essere il Füssballgott che è, ha avuto un ruolo effettivo in questo traguardo; agli stessi Yann Aurel Bisseck e Kristjan Asllani i titolarissimi hanno riservato solo le briciole di minuti e gloria. Ci ha messo del suo pure Simone Inzaghi, al primo scudetto assoluto in panchina (da giocatore lo vinse nella stagione 1999-2000 con la maglia della Lazio) dopo aver collezionato coppe Italia: il tecnico piacentino ha forgiato un undici quasi più inamovibile del Chelsea versione Maurizio Sarri, quando ad ogni partita operava sempre lo stesso cambio, quasi al medesimo minuto.

Sul velluto l’attacco con il Lautaro Martínez più determinante di sempre e un Marcus Thuram che per metà torneo ha mostrato miracoli di velocità e potenza (salvo rifiatare a ridosso della primavera), blindato il centrocampo con il calciatore totale Nicolò Barella, il mvp Hakan Çalhanoğlu e l’insostituibile Henrikh Mk’hitaryan, il mister ha continuato a dare giusta fiducia al discusso Francesco Acerbi e a premiare la continua crescita di Alessandro Bastoni, riservando al ruolo di “braccetto” destro le possibili rotazioni con la fascia. Determinante la versatilità di Matteo Darmian: ne ha fatte spesso le spese Denzel Dumfries, mai sbocciato definitivamente dopo il fantastico Europeo 2021. Manna per Benjamin Pavard, fortemente voluto dagli uomini mercato di viale della Liberazione, pur consapevole di saper dare ancora di più, salute permettendo: ovvero ciò che già garantisce un Carlos Augusto a suo agio pure in trincea, prezioso elemento per il futuro a prescindere da Dimarco, ma anch’egli arrivato al grande calcio a 25 anni.

Il discorso quindi non cambia: Darmian viaggia verso i 35, idem l’armeno volante e il figliol prodigo Marko Arnautović. Un anno più adulti, l’ex Niño Maravilla Alexis Sánchez, lo stesso Acerbi, il portierone Yann Sommer (terzo estremo difensore in tre anni) e l’oggetto misterioso Juan Cuadrado, falcidiato dagli infortuni. Non aspettano più i trenta nemmeno il regista turco, il solido Stefan de Vrij e l’altro alieno Davy Klaassen, che si farà ricordare per uno dei rigori sbagliati contro l’Atlético Madrid; ci si avvicinano l’ufo Stefano Sensi, sempre ai box, e l’ulteriore olandese Dumfries, Pavard e Dimarco, il secondo portiere Audero – pare non verrà confermato – e pure Thuram, giunto negli anni della massima maturità sportiva anche se ogni percezione lo ringiovanisce.

Con questi chiari di luna, è evidente come diventa faticoso disputare per la supremazia continentale, se non cambia qualche input all’operatività dell’ad Giuseppe “League” Marotta (peraltro in uscita dal 2027): fermarsi al confine non è più sufficiente, dopo aver sfiorato il colpo del secolo solo undici mesi fa. A tutti gli effetti, dunque, lo scudetto dell’Inter 2023-2024 diventa il premio alla carriera per molti dei suoi protagonisti, che al pari del loro coach mai prima lo avevano visto così da vicino, almeno in Italia: Çalhanoğlu, Thuram, Dumfries, Dimarco, Acerbi, senza contare Sommer e Pavard, non c’erano l’anno di Antonio Conte, e nelle rispettive esperienze esterne avevano riscosso solo trofei minori. Per Mk’hitaryan bisogna andare indietro di oltre dieci anni, per ritrovarlo campione ucraino con lo Šachtar Donec'k.

Davanti a un’annata dove ha segnato molto più di tutte le altre (nonostante i sei 1-0) e subito molto di meno, l’Inter e chi l’ha rappresentata in campo possono a buon diritto vantare una sorta di diritto alla novità, se non alla giovinezza anagrafica. Aveva l’organico senza dubbio più forte anche negli ultimi due campionati, poi ci si sono messi di mezzo prima i crocicchi e la gran calma, poi i meriti e successivi demeriti di Napoli, Milan, Juve, oltre ai peli nell’uovo casalinghi: fascia destra da rifare, con Raoul Bellanova che esplode al Torino mentre Steven Zhang decide di non esercitare l’opzione per il suo acquisto, e la mortificazione di Frattesi solo tre volte titolare. Si è vista forse la versione meno attesa e al risparmio di una squadra ritenuta già competitiva così, a mortificare le aspettative dopo la finale di Champions League perduta senza demeritare: in fondo, all’Inter è bastato poco per vincere lo stesso e fare suo il torneo. Nessuno oggi crederebbe che questa squadra ha perso a San Siro contro il Sassuolo più che pericolante: eppure la vittoria la ammanta di un’aura forse transeunte, certo meritata. Perché alla fine, quel triangolo di stoffa è la sola cosa che conta.

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