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Così Rodri è diventato indispensabile nel Manchester City che ha vinto la Champions

Marco Gaetani

Il gol che ha deciso la finale contro l'Inter è stato solo l'ultimo tassello di una stagione eccezionale per il centrocampista spagnolo: l'equilibratore del gioco di Pep Guardiola

Nell’era dello star power a tutti i costi, dell’attenzione inevitabilmente posta su attaccanti e trequartisti, la finale di Champions League l’ha risolta uno dei fedelissimi di Pep Guardiola, un calciatore che è sempre lì, nascosto in piena vista. Nel 2021, nella sorpresa generale, Rodrigo Hernandez Cascante, per tutti più semplicemente Rodrigo o Rodri, era rimasto seduto in panchina: il tecnico catalano aveva scelto un assetto diverso, con Gündogan in regia. Una decisione fortemente criticata con il senno di poi e che forse è servita anche al genio di Santpedor per capire che non può esistere un Manchester City senza Rodri.

La firma sulla finale di Istanbul non è la prima di un certo livello: già decisivo un anno fa, nel turbolento pomeriggio che consegnò la Premier League ai Citizens in un finale sconsigliato ai deboli di cuore, Rodri si è ripetuto quest’anno, aprendo le marcature nel quarto di finale di andata contro il Bayern Monaco prima di mettere la ciliegina sabato sera. L’ex Atletico Madrid è l’equilibratore supremo di una squadra pensata nel minimo dettaglio: con il nuovo assetto voluto da Guardiola non c’è bisogno di vederlo abbassarsi tra i centrali difensivi per avviare l’azione, lui che all’occorrenza può fare anche il difensore, e allora è più libero di proporsi nella metà campo offensiva, una sorta di Busquets 2.0.

Eppure, per la tendenza a essere spesso l’unico baluardo in un centrocampo che fa della fluidità e della mentalità offensiva il suo punto di forza, l’altro paragone immediato è quello con Casemiro, l’uomo che ha consentito al Real Madrid di instaurare il suo ciclo vincente, proteggendo le spalle a Modric e Kroos, sopportandone e nascondendone le carenze difensive. Proprio come il brasiliano, Rodri ha trovato un gol decisivo in una finale di Champions League contro un’italiana: il “Casemiro di Guardiola” è il prototipo del calciatore moderno, fisicamente impressionante, capace di reggere in velocità anche contro avversari più rapidi, forte di una mentalità che pesca a piene mani da un vivaio storicamente ruvido come quello dell’Atletico Madrid e che ha saputo essere contaminata dalle idee di calcio in perenne evoluzione di Guardiola. Non ha paura dello scontro fisico ma neanche del pallone, inteso come oggetto da tenere saldamente tra i piedi: Rodri detta i tempi e i ritmi del gioco, 70 milioni spesi in maniera magistrale.

La Uefa, ben oltre il gol in finale, ha deciso di premiarlo come miglior giocatore del torneo, chiusura perfetta di una stagione in cui è sceso in campo 56 volte per 4.478 minuti complessivi, alla faccia del turnover e degli allenatori terrorizzati dalle partite ogni tre giorni: nelle ore in cui si sprecano i profili di Rodri imperniati sulla sua rinuncia ai social network e sulle frasi di brutale onestà pronunciate a fine partita, accollandosi colpe anche eccessive per un primo tempo giocato al di sotto delle aspettative, pare invece il caso di porre l’accento sul suo essere diventato indispensabile per un allenatore che ha sempre fatto dell’importanza del centrocampo e della gestione del pallone la propria ragion d’essere. Gli aggiustamenti continui di Guardiola hanno portato al recupero di un concetto di quadrilatero di centrocampo caro alla tradizione brasiliana, spesso legata al doppio mediano da affiancare a un doppio trequartista: Stones e Rodri a presidio, De Bruyne e Gündogan più avanti. La volontà di controllare il pallone elevata all’ennesima potenza, il messaggio che il centrocampo, come suggerisce il termine stesso, sia al centro di tutto. Non a caso, mentre il mondo guardava Haaland, è spuntato Rodri.

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