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Zamora e il calcio lezione di vita. Neri Marcorè interprete e regista del film tratto dal romanzo di Perrone

Franco Dassisti

Nelle sale dal 4 aprile, Zamora deve il suo titolo al portiere leggenda degli anni Venti e Trenta. Così viene soprannominato il protagonista, Walter, dai colleghi di lavoro quando si sfidano sul campo. Ma lui ha un solo problema: in porta è davvero una schiappa

Ci ha messo vent’anni, Neri Marcorè, a passare dietro la macchina da presa. Vent’anni da quel film, “Il cuore altrove”, con cui Pupi Avati gli aveva offerto la prima chance da protagonista, ripagato da una nomination ai David di Donatello, e da un Nastro d’Argento. Vent’anni di crescita progressiva e inesorabile, al ritmo di un cinema profondo e garbato, anche quando era solo per ridere. Ecco, il garbo. È questa la cifra che Neri Marcorè si è portato dietro nel suo esordio da regista, con “Zamora”, nelle sale cinematografiche dal 4 aprile.

Un titolo che odora subito di calcio, ma di un calcio antico, di campi di gioco più marroni che verdi, di palloni di cuoio pesanti, come la lana delle magliette o del berretto del portiere. Sì perchè, per chi non lo sapesse, Zamora era un portiere. Il più grande di tutti fra gli anni Venti e Trenta, e anche nei decenni successivi, diciamo fino all’avvento del “ragno nero”, Lev Yashin. Ricardo Zamora indossò tanto la maglia del Barcellona, città in cui era nato, che quella del Real Madrid e, per 46 volte, quella della Spagna. Vinse due campionati e cinque Coppe di Spagna, e, come allenatore, altri due titoli con l’Atletico Madrid. Insomma, una leggenda. Della quale è totalmente ignaro Walter Vismara da Vigevano (Alberto Paradossi), impiegato come contabile nella più classica delle fabbrichette anni Sessanta, guidata dal commendator Galbiati (Antonio Catania). La vita di Walter scorre liscia sulla monorotaia di una noia felice. Niente scosse, niente rischi. Finchè un giorno il commendatore non gli comunica che l’azienda chiude i battenti, ma che lui può stare sereno: lo aspetta un posto presso la società di guarnizioni del cavalier Tosetto (Giovanni Storti), nell’affascinante e tentacolare Milano del boom economico. 


Walter Vismara parte di controvoglia, pieno di interrogativi e di qualche paura. Alloggia dalla sorella Elvira (Anna Ferraioli Ravel) e pian piano si inserisce nella vita d’ufficio, corteggiando timidamente la bella segretaria Ada (Marta Gastini) e venendo bullizzato dal collega Herbert Gusperti (Walter Leonardi), il classico “ganassa” da macchinetta del caffè. Ma il vero ostacolo alla serenità di Walter Vismara, arriva proprio dal grande capo. Sì perché il cavalier Tosetto è ossessionato dal folber (il football, come lo chiamava Gianni Brera). Interista fino al midollo, obbliga tutti i dipendenti ad estenuanti allenamenti settimanali, che culminano nella grande sfida scapoli-ammogliati del primo maggio. E quando chiede a Vismara in che ruolo giochi, lui risponde candido: “portiere”. Del resto è l’unico ruolo che conosce. Il problema è che in porta è davvero una schiappa. In ufficio, lo chiamano “Zamora”, solo per deriderlo. 


Così Walter decide di contattare Giorgio Cavazzoni (Neri Marcorè), ex portiere del Milan, grandi speranze ormai cadute in disgrazia fra alcol, debiti e belle donne. Cavazzoni allenerà Vismara a diventare un portiere abbastanza decente da zittire i colleghi e conquistare il cuore di Ada. Vismara allenerà Cavazzoni a cavarsela nella vita e a tirarsi fuori dal baratro in cui si è cacciato. E qui torniamo al garbo. Perchè una vicenda come questa senza un punto di vista sensibile come quello di Marcorè, rischiava di mostrare una grana grossa. Invece il regista e attore marchigiano riesce a rendere tutto credibile, sincero, non banale. Sul set applica la lezione del suo maestro, Pupi Avati, e si mette di fianco alla macchina da presa, a scrutare gli attori da vicino, indirizzarli, spronarli. Come un vero allenatore a bordo campo. E gli attori restituiscono credibilità e talento. Alberto Paradossi è perfetto nei panni del giovanotto di provincia che affronta la città con un misto di convinzione e timore. 


Il cast femminile disegna personaggi di grande modernità, donne decise, pur se pienamente figlie del loro tempo. La Ada di Marta Gastini sa farsi rispettare in quel mondo di maschi tracotanti e lumaconi, mentre l’Elvira di Anna Ferraioli Ravel conquista la libertà allontanandosi da un matrimonio che le sta stretto (guardatela fare la romana di borgata in “Un altro ferragosto”, e la milanese disillusa in questo film: entrambe perfette. E lei è salernitana!). “Zamora” è tratto dal romanzo omonimo di Roberto Perrone, scomparso poco prima di vedere il film finito. “Porto dentro di me il ricordo della sua commozione quando lesse la sceneggiatura” ricorda Neri Marcorè, che per lavorare sulla figura del portiere anni Sessanta, si è affidato all’amico Stefano Sorrentino, già fra i pali di Torino, Palermo e soprattutto Chievo. “Con il protagonista Alberto Paradossi abbiamo preso un po’ di lezioni affinchè risultasse credibile nel gesto tecnico e non si facesse male quando si tuffava. Quanto alla costruzione dell’estetica del personaggio c’è stato un grosso lavoro della costumista Cristina Audisio, con foto e documenti d’epoca, per dare al nostro Walter Vismara un’aria impacciata e goffa che via via lo rendesse sempre più vicino all’mmagine di un portiere vero”. 


Ma nella vita Neri Marcorè (tifoso di ben due squadre bianconere, la Juve e l’Ascoli) si sente più portiere o più attaccante? “Un po’ tutti e due, l’importante è riconoscere quando serve parare i colpi e quando uscire a conquistare la preda. Come diceva il grande Dino Zoff, a proposito di portieri, 'Io non sono modesto, ma sono umile. E ambizioso. Quindi l’umiltà mi permette di curare la fase difensiva e di costruzione, mentre l’ambizione mi porta ad osare e attaccare”. Perfetta metafora di “Zamora”, il racconto di un’Italia che non c’è più, ma che in fondo non se n’è mai andata. E che vive di relazioni fragili e di grandi amori. Come il folber.

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