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Crocicchi #29

L'attimo nel quale la Juventus si è persa

Enrico Veronese

Dopo il pareggio con l'Empoli del 27 gennaio i bianconeri si sono involuti e della squadra che segnava ed era tornata a offrire un bel calcio non è rimasto niente

La Juve si è fermata ad Empoli. Per la precisione, al proprio Stadium contro gli azzurri toscani: data infatti al 27 gennaio scorso il pareggio interno, strappato dagli uomini allenati da Davide Nicola, che segna l’inizio della crisi bianconera. Dal tempo che è passato, potrebbe apparire come un altro calcio (segnò Tommaso Baldanzi, nelle sue ultime ore toscane prima di prendere la strada per Roma): in realtà non basta il sudatissimo successo contro il Frosinone, agguantato per 3-2 al 95° minuto un mese più tardi, a dire che la squadra di Massimiliano Allegri sia stata in salute anche successivamente. I due punti persi entro i vecchi confini comunali di Venaria Reale sono stati lo spartiacque della stagione juventina, dal momento che fino a pochi giorni prima le zebre macinavano gol (dieci in tre partite, diciotto in cinque), azioni pericolose e di conseguenza pretese di avvicinamento ad eventuali passi falsi dell’Inter. Dopo quella data, da inseguitrice dei futuri campioni d’Italia la Juventus si ritrova a essere inseguitrice del Milan, che l’ha scavalcata, ha saputo riprendersi il secondo posto e prova ad accelerare; non solo, il Bologna e la Roma – pur distanti – si intravedono dallo specchietto retrovisore, e non si possono ancora dire seminate del tutto. Così, pure l’obiettivo dichiarato della Champions League torna in ipotetica discussione, ora che il sogno tricolore è naufragato in via definitiva.

Ma cosa era successo contro l’Empoli, a fine gennaio, per determinare così tanto i mesi venturi? Rivedendo le azioni salienti di quella partita, a primo impatto niente di insormontabile: gli undici in maglia grigia antracite si erano visti privare di Arkadiusz Milik, espulso nella prima metà del primo tempo, ed errori da una parte e dall’altra avevano portato all’effimero goal di Dušan Vlahović in mischia. Al 69°, inopinato, il tiro senza pretese del golden boy empolese si insaccava in buca d’angolo: rimanevano altri venti minuti per organizzare la risalita, la Juve ha abituato a questo ed altro. Però, anzi, Matteo Cancellieri e Nicolò Cambiaghi hanno avuto addirittura la palla killer, non sfruttata fino in fondo e certo non per loro colpe (ottimi Tek Szczesny e Bremer, come sempre). In pratica, l’episodio imponderabile che fa crollare le certezze: ne sono piene le trame dei film. Sta di fatto che da allora sono scaturiti sei miseri punti in otto partite, soffrendo a Verona, cadendo ancora in casa contro l’Udinese, strappando solo un terzo della posta ad Atalanta e Genoa, inchinandosi senza infamia al Napoli e a un Inter ora convalescente: i postumi di Madrid saranno lunghi, per chi già si vedeva di nuovo in finale, e con buone ragioni per farlo.

Si può dire che Baldanzi ha spento la luce, rivelando che il re è nudo perché la coperta che lo copriva era corta: deficitaria nelle fasce (un segno divino la riapparizione in panchina del lungodegente Mattia De Sciglio), del tutto assente nelle dinamiche di mercato se si eccettuano l’azzeccato Andrea Cambiaso e il – finora – flop Tim Weah, alcuni elementi a fine corsa come Alex Sandro e altri forse sopravvalutati. Dove piace giocare a Manuel Locatelli? E l’abulia intermittente di Federico Chiesa, come si può spiegare se non con questioni di modulo? È probabile che gli stessi individui della formazione tipo, schierata con il 3-5-2, rendano di più se riportati a quattro in due linee con il figlio d’arte largo a sinistra, ma il latte versato e i buoi scappati non rientrano se il volenteroso Weston McKennie si applica, o se il solo numero 9 produce over performance. E nemmeno succede sempre.

Limiti di “manico”, limiti strutturali, sicuramente nella rosa: senza le fatiche europee non è giustificabile il tracollo, ma in presenza di una formazione Under 23 che disputa campionati professionistici è lecito chiedersi se si possa galleggiare in alto senza spendere un soldo. Ormai tutti gli allenatori elogiano le panchine lunghe, i gregari che sanno aspettare in silenzio: l’ultimo è stato Luca Gotti, uno dei più intelligenti uomini di calcio in circolazione, che il campionato riabbraccia mentre sostiene che “l’undici di base non è più importante come prima, stiamo andando anzi in una direzione dove cerchiamo di utilizzare tutte le risorse”. Se ce ne sono, appunto… Ditelo a Simone Inzaghi, piuttosto, che si volta verso la panca e vede solo Marko Arnautović o Alexis Sánchez per dare la scossa. Quando Davide Frattesi morde il freno e scalpita, in attesa del turno di squalifica per Nicolò Barella o Henrikh Mkhitaryan: sole circostanze in grado di imporlo dall’inizio. Anche ad Appiano Gentile, è bene saperlo, dovranno ricostruire senza pensare che l’imminente scudetto consenta di riposare sopra gli allori.

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