Gianmarco Lucchesi durante la partita tra Romania e Italia al Arcul de Triumf stadium a Bucarest nel 2022. (Foto AP/Andreea Alexandru via LaPresse)

Sei Nazioni

Il rugby è "un amore a prima mischia". Intervista a Gianmarco Lucchesi

Marco Pastonesi

"Una vittoria è il compimento di uno sforzo comune, di un percorso collettivo, di anni insieme. Peccato che non accada spesso". Parla il tallonatore della Nazionale italiana impegnato nel Sei Nazioni contro la Francia al Pierre Mauroy di Lille

Cristo e i due ladroni. Cristo: lui, Gianmarco Lucchesi, tallonatore. E i due ladroni: i due piloni, che in prima linea si sacrificano, uno alla sua destra, l’altro alla sua sinistra. Lucchesi precisa: “Cristo, dai, è un’esagerazione, sacrilega”. E sorride: “I due ladroni, be’, qualcosa di vero ci potrebbe anche essere”.

Gianmarco Lucchesi, 23 anni, nato a Pisa ma cresciuto a Livorno, un armadio di 1,84 per 110, domenica alle 16 contro la Francia al Pierre Mauroy di Lille (il Saint Denis di Parigi è chiuso per lavori) giocherà la ventesima partita in Nazionale.

Lucchesi, tallonatori si nasce o si diventa?

“Si diventa. Papà giocava a football americano, io ero troppo piccolo per cominciare, non però il rugby. A sette anni nei Lions Amaranto di Livorno. Un amore a prima mischia”.

Perché?

“Lo sfogo si è trasformato in passione. Un gusto fisico, un piacere muscolare. Il primo ruolo, terza linea: correre, rincorrere, buttarsi, placcare. Un anno, nell’Under 14, mediano di apertura: divertente, però da destra a sinistra riuscivo a passare, da sinistra a destra no, il gioco era prevedibile e i compagni si lamentavano. Poi tallonatore. Lo ha proposto l’allenatore, l’ho accettato io, l’ha voluto il destino. Meglio così”.

Il bello del tallonatore?

“Hai sempre la palla in mano o fra i piedi. Sei in mezzo alla partita, alla fonte del gioco, alla sorgente delle azioni. Attacco o difesa. Mischia e touche”.

Mischia chiusa: sembra quasi che il tallonatore non talloni più.

“Perché tutto è diventato così rapido. Ma il tallonatore continua a tallonare il pallone e indirizzarlo dalla propria parte”.

Lei è l’unico a legarsi completamente ai compagni, quasi… prigioniero.

“Tant’è vero che con i due piloni ho un rapporto speciale, da fratelli, da gemelli, da siamesi. Insieme a prendere e a dare testate. Che poi non è vero, perché il gioco è sempre più regolamentato e disciplinato. Però è vero che siamo un tutt’uno, è vero che l’impatto fisico esiste, è vero che nel momento dell’impatto cerchiamo di anticipare non il comando dell’arbitro – è vietato -, ma la spinta degli avversari, centesimi di secondo determinanti, decisivi. Come alla partenza di un gran premio di F.1 o MotoGp. L’arbitro è il semaforo. E al verde, scattiamo. Corse lunghe pochi centimetri”.

Nelle rimesse laterali?

“Ogni squadra ha un giocatore che chiama lo schema. In Nazionale è Federico Ruzza oppure Andrea Zambonin. E lo fa in base alla strategia dettata dal mediano di apertura. Tra saltatori e blocchi, le varianti sono quasi infinite”.

La furba?

“Rapida sul primo uomo quando si è in difficoltà nel catturare i palloni sui saltatori. La furba non dà slancio all’azione, ma fa comodo. Nove volte su 10 funziona. Ma si fa solo una volta in una partita”.

La storta?

“Il pallone deve volare nel canale sopra le teste a braccia diritte. Sennò è storta. Ma c’è storta e storta. E a decidere è l’arbitro”.

Da che cosa si riconosce un bravo tallonatore?

“Dalla consistenza. E’ una terza linea aggiunta”.

E da che cosa lo si giudica?

“Da quanto poco sbaglia”.

Sei Nazioni: lo stadio più emozionante?

“L’Aviva a Dublino. L’architettura, l’atmosfera, l’inno. L’Ireland’s Call fa venire i brividi a tutti, avversari compresi”.

Il popolo?

“In Inghilterra il tifo più rugbistico, in Francia il più calcistico”.

La maglia?

“Il verde dell’Irlanda ha una sfumatura speciale”.

La musica?

“Le cornamuse della Scozia”.

E la birra?

“Italiana. L’Ichnusa non filtrata”.

Esistono ancora le tradizioni nel rugby?

“Le tradizioni e i valori. Le tradizioni come il terzo tempo. E i valori come sostegno e rispetto”.

Che cos’è la vittoria?

“Una felicità sismica. Il compimento di uno sforzo comune, di un percorso collettivo, di anni insieme. Peccato che non accada spesso”.

E la sconfitta?

“Un male atroce. Ma dipende, c’è sconfitta e sconfitta. La sconfitta contro l’Inghilterra sa di rammarico, un’occasione perduta, quella contro l’Irlanda di inadeguatezza, un approccio sbagliato. Comunque deve essere una lezione”.

I suoi studi?

“Maturità scientifica, poi università, ma adesso il tempo lo dedico tutto al rugby, non alla psicologia”.

Però l’ignoranza…

“In prima linea ci vuole un superfisico. Una volta era sufficiente essere granitici, adesso è indispensabile essere – come diciamo noi – ‘fit’. Obiettivo: superare l’avversario nell’uno-contro-uno. Comandamento numero 1: avanzare”.

Paura?

“E’ alla base del nostro sport. Ma la paura si trasforma in attenzione, concentrazione, forza, agonismo”.

Lucchesi, almeno nelle mischie, lei vive al buio.

“Ma è un buio senza fantasmi. E ci sono i compagni. Non li vedi ma li abbracci, li senti, li ascolti, li vivi. E insieme ci facciamo un gran coraggio”.

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