Lamar Hunt (Ansa) 

Il Foglio sportivo

Lamar Hunt, il Re Mida dello sport

Roberto Gotta

Non solo i tre Super Bowl vinti da Kansas. Al dirigente sportivo devono tanto anche Gianni Infantino e Jannik Sinner

Al centro di tutto, nella metà di tutto. Kansas City è nel Missouri, ma anche nel Kansas. È nata nel 1830 alla confluenza dei fiumi che hanno dato i nomi ai due stati, non è lontana dal centro geografico degli Stati Uniti ed è stata capace di darsi bellezza con la costruzione di viali alberati e parchi, forse a controbilanciare quella che per decenni fu l’attività principale, terminale del mercato del bestiame, dove arrivavano ben 16 diverse linee ferroviarie: e allora il contrasto era tra cow town, com’erano chiamate le città fondate principalmente su quel settore, e Paris of the Plains, la Parigi delle praterie, una doppia anima che solo con il crollo dell’economia legata al bestiame ha preso una direzione precisa. E Kansas City, così a lungo simbolo dell’America di mezzo da essere presa come tormentone da Alberto Sordi nel suo Un americano a Roma (1954), è in realtà un centro che nello sport ha un’importanza sottovalutata. Parte tutto dai Chiefs, da pochi giorni campioni della Nfl per la terza volta dal 2020, ma a loro volta i Chiefs non sono altro che la creatura di uno dei personaggi più importanti nella storia dello sport mondiale, Lamar Hunt, uno a cui devono tanto, in ultima analisi, Pat Mahomes, Jannik Sinner e Gianni Infantino. Esagerato? Forse, ma ci arriviamo.


Hunt, 1932-2006, era figlio di HL Hunt, personaggio dalla vita complicata e controversa, divenuto uno degli uomini più ricchi del mondo grazie al petrolio dell’Arkansas e ancor più del Texas orientale. Libero dalla necessità di mettere assieme il pranzo con la cena, Lamar al lavoro nelle aziende di famiglia affiancò la passione smodata e precoce per lo sport: la sua prima idea fu quella di creare una squadra Nfl a Dallas, dove abitava, o di acquistare e trasferirvi gli allora Chicago Cardinals, ma a quel tempo la lega non voleva allargarsi troppo, per cui Hunt fu l’anima di un gruppo di imprenditori che nel 1960 fondarono la American Football League, alternativa alla Nfl. Un’impresa rischiosa, tanto che i proprietari di quelle otto squadre furono collettivamente etichettati come il ‘Foolish Club’, in poche parole un gruppo di pazzi. Ricchi, ma pazzi. La Nfl però si allarmò e concesse rapidamente a Clint Murchison, pure lui figlio di un petroliere, la possibilità di fondare una squadra a Dallas, i Cowboys, che grazie al maggiore prestigio della lega cui appartenevano trovarono presto più spazio dei Texans di Hunt, portando Murchison, che del collega-rivale era ammiratore, a pronunciare la celebre frase “Lamar è il terzo uomo più ricco d’America eppure ora viene descritto come un underdog: ditemi voi…”. 


Tempo tre anni e Hunt, dopo un’inconcludente trattativa con New Orleans, trasferì i Texans a Kansas City, città a lui facilmente accessibile. A convincerlo fu l’incontenibile sindaco Harold Roe Bartle, soprannominato Chief, da cui prende il nome la squadra, anche se l’immaginario costruitole attorno è quello del riferimento ai ‘capi’ nativoamericani, fondato peraltro sul fatto che Bartle sosteneva di essere stato fatto membro onorario del popolo degli Arapaho. Partiti malino, i Chiefs sono diventati il simbolo di Kansas City tanto quanto i celebri ristoranti di barbecue, mentre le squadre di basket (Kansas City Kings, 1972-85) e baseball (gli ex Philadelphia A’s, 1955-67) non hanno messo radici permanenti e solo i Royals, sempre nel baseball, hanno attecchito dalla fondazione nel 1969, vincendo anche due titoli. Ma il lavoro di Hunt non si limitò al football, anzi. Appassionato di calcio e di tennis (“e di qualsiasi altro sport sulla faccia della terra” diceva la moglie Norma, scomparsa nel 2023 e unica donna ad aver visto dal vivo tutti i Super Bowl, nome che tra l’altro fu coniato proprio da lei e dal marito), dopo una visita a Dublino a vedere il Shamrock Rovers nel 1962 seguì poi parte dei Mondiali del 1966 in Inghilterra e fu tra i fondatori di una lega chiamata United Soccer Association che organizzò un campionato importando squadre straniere (compreso il Cagliari, che divenne Chicago Mustangs). 


Quando la lega andò in crisi, Hunt la tenne viva con il suo sostegno e permise così la sopravvivenza del calcio in America attraverso la Nasl e poi la Mls, in cui ebbe la proprietà di tre squadre: è anche grazie alla sua eredità se Kansas City ha ottenuto dalla Fifa sei partite dei Mondiali 2026 compreso un quarto di finale, unica tra le metropoli non tradizionali, mentre Dallas, sede dell’Fc del figlio Clark, ne avrà più di tutte, nove. E invece il tennis? Hunt accolse la proposta di David Dixon, organizzatore di eventi che conosceva per quella trattativa con New Orleans, e creò un circuito di giocatori professionisti, il World Championship Tennis, che spezzò anni di finto dilettantismo e professionismo sciatto (famoso l’episodio di un tennista che dovette cambiarsi appendendo gli abiti ad un chiodo che lui stesso aveva piantato in un muro) e aprì la strada alla struttura che attraverso fusioni, cause legali e contrapposizioni sfociò nel dominio dell’Atp e nelle infinite ricchezze che i Sinner e i Djokovic portano a casa. 
 

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