(foto Ap)

(1934-2024)

L'insostenibile leggerezza di Kurt Hamrin, che in aria di rigore si sentiva a casa

Furio Zara

E' morto a 89 anni lo storico attaccante di Padova, Fiorentina, Milan e Napoli. Gli anni con Nereo Rocco. Nono miglior marcatore della storia della Seria A, ispirò anche Paolo Rossi

Quella corsa di passi rapidissimi e gambe che si muovevano a mulinello, quel fisico segaligno - un fascio di nervi, una saetta - quella naturale predisposizione a calciare da ogni posizione, appena intravedeva nel suo radar il contorno della porta. L’insostenibile leggerezza dell’Uccellino, sempre in agguato, all’erta sopra un ramo, appollaiato al limite dell’area di rigore. Kurt Hamrin se n’è andato oggi, aveva 89 anni. Da qualche tempo correva nella nebbia di una malattia che gli aveva silenziato i ricordi. E lui, di ricordi, gran bei ricordi, ne aveva seminati un po’ ovunque, nella sua lunga e gratificante carriera. I suoi 190 gol in Serie A ne fanno il 9° marcatore di sempre nella storia del nostro campionato. Quindici gli anni passati ad aspettare un lancio, un passaggio filtrante - non si chiamava ancora imbucata - partendo dalla sua comfort zone, la fascia destra, in un esilio dove all’epoca l’unica ipotesi possibile era scattare in avanti, bruciando sullo scatto i difensori avversari.

 

Le sue squadre: Juventus, Padova - Nereo Rocco lo chiamava Faina - Fiorentina, Milan e Napoli. Nato a Stoccolma, classe 1934, quinto figlio di un imbianchino, da ragazzo Kurt per mantenersi aveva fatto un lavoro che non esiste più - lo zincografo - per il quotidiano Dagens Nyheter di Stoccolma. Arriva in Italia nel 1956, alla Juve. Un anno in chiaroscuro, poi la straordinaria stagione a Padova - 20 gol in campionato, in coppia con il centravanti Sergio Brighenti - che lo porta da protagonista al Mondiale casalingo del 1958, con la Svezia che raggiunge la finale e cede solo al Brasile del diciassettenne Pelé. In quel torneo è il cannoniere della Svezia con 4 gol, che gli valgono - quell’anno - il 4° posto al Pallone d’Oro.

E’ il periodo in cui viene paragonato a Garrincha. Le sue finte, le sue accelerazioni, quella tecnica tutta particolare di calciare il pallone sulle caviglie degli avversari per poi indovinarne i i rimbalzi, ne fanno una versione europea del favoloso brasiliano. Più concreto del collega sottorete, Hamrin si fa apprezzare da compagni di squadra e allenatori per le sue “punture” in area di rigore avversaria. Quando c’è una mischia, il pallone gli capita inevitabilmente tra i piedi, come se conoscesse la strada di casa. Il Paròn Rocco, suo grande estimatore, disse con affetto che “Hamrin ha in testa un cronometro svizzero. Non eccelle in nulla, non nella tecnica di base non nel dribbling o nel colpo di testa, ma nessun giocatore al mondo possiede la sua scelta di tempo sui rimpalli”.
 

Dal 1958 al 1967 il timido Kurt - mai una parola di troppo, mai una polemica - trova a Firenze la sua Itaca. Rimarrà per sempre a vivere in città, vicino alla Fiorentina. Con i viola segna 151 gol in campionato (2° miglior marcatore di sempre, solo Batistuta l’ha superato), vince due volte la Coppa Italia e la Coppa delle Coppe, diventa per tutti Uccellino - grazie alla felice intuizione del giornalista Beppe Pergolotti de “La Nazione” - segna i primi gol al giovane debuttante portiere dell’Udinese Dino Zoff in Serie A, centra svariati record, tra cui una cinquina messa a referto contro l’Atalanta dentro un clamoroso 7-1 a Bergamo per i viola. Poi, a 33 anni, Rocco - che l’ha allenato a Padova - lo vuole al Milan. Per Hamrin è l’occasione di una seconda giovinezza. Mette in bacheca il primo e unico scudetto della sua carriera, quindi una Coppa delle Coppe (è lui a segnare la doppietta che nella finale del 1968 piega l’Amburgo) e una Coppa dei Campioni. Gli ultimi anni li spende a Napoli, per chiudere con una decina di partite a Stoccolma, coltivando sempre nell’abbrivio e nel guizzo il suo modo di intendere il calcio.

Era facile rimanere ammaliati dalle corse di Hamrin. E’ stato l’idolo di un ragazzino di Prato cresciuto negli anni 60, figlio di un impiegato in un’azienda tessile e di una sarta; un adolescente che nei suoi scatti - così brucianti, così definitivi - si riconosceva. Giocava in oratorio, a Prato, con la Cattolica Virtus. La Fiorentina era la sua squadra del cuore, Hamrin il suo calciatore preferito. Quel ragazzino si chiamava Paolo Rossi.

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