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Il Foglio sportivo

Inzaghi e Allegri tra vizi, virtù, segreti e lo scudetto

Marco Gaetani

Il nerazzurro ha imparato a non cadere nelle provocazioni del bianconero che però non la racconta giusta

Com’è difficile restare calmi e indifferenti mentre tutti intorno fanno rumore, scriveva e cantava Franco Battiato nell’anno di grazia 1981, assurto a fama nazionale al suo undicesimo album, “La voce del padrone”, lavoro pensato e studiato nei minimi dettagli per “fare il botto” dopo anni di sperimentazioni, e poco importava che avesse già disseminato il suo percorso di capolavori che sarebbero stati riscoperti a distanza di tempo. Numeri alla mano, iniziando il conto dalla Primavera laziale, è arrivato a quota undici stagioni da allenatore anche Simone Inzaghi, che sembra aver fatto propria la lezione del Maestro: lo vediamo ancora urlare fino a mettere in pericolo le corde vocali a bordo campo, questo sì, ma tutto ciò che gli ronza attorno pare non scalfirlo. C’è anche questo nuovo approccio del tecnico piacentino dietro un’Inter che si presenta da padrona allo scontro diretto che può indirizzare, in un senso o in un altro, il campionato. Un Inzaghi serafico, imperturbabile, che si lascia infilzare dalle battutine di Massimiliano Allegri e passa oltre, ignorandole. L’ultimo turno doveva essere in teoria favorevole alla Madama, ma Milik ha combinato un disastro e l’Inter, col solito Lautaro, ha sbancato Firenze. Dalla prospettiva bianconera di presentarsi a San Siro in testa, seppur con una gara in più, si è passati al punto di vista opposto: il musetto davanti ce l’ha di nuovo Inzaghi, con il bonus della partita in meno e la consapevolezza, in caso di vittoria, di poter guardare al futuro con più serenità.

Nelle ultime settimane, l’atteggiamento di Inzaghi e Allegri è stato profondamente diverso. Il tecnico bianconero ha cercato di preparare la strada verso San Siro spargendo frecciate con una nonchalance che rientra perfettamente nel personaggio: prima il riferimento alle guardie e ai ladri, quindi quello a Sinner e Djokovic. E dopo aver lanciato l’ultimo sasso, da esperto navigatore di polemiche, ha immediatamente nascosto la mano: “Ma magari la prendono male, sono permalosi”. C’è stato e chissà, magari tornerà anche in futuro, un Inzaghi permaloso e suscettibile. Lo è stato, talvolta, ai tempi della Lazio, quando qualche torto arbitrale di troppo lo aveva reso perennemente pronto a scattare e a sbraitare. Ma con il tempo, l’esperienza e le bruciature che rimangono impresse sulla pelle, si finisce per imparare molto. Adesso lascia che tutto scorra via, quando si presenta a parlare con i giornalisti imposta il pilota automatico e si limita al campo, con un approccio che ricorda molto da vicino quello di un suo vecchio maestro, Sven-Göran Eriksson. Eppure le insidie restano, perché all’Inter non è bastato un ruolino di marcia da spavento per fare il vuoto. Il Napoli di Spalletti, dopo 21 giornate, era a quota 56 punti: l’Inter ne ha raccolti due in meno, ma il margine sulla rivale diretta è ridotto all’osso, mentre gli azzurri guardavano alla seconda in classifica con un rassicurante +13.

Da mesi, d’altro canto, Allegri non fa che indicare l’erba del vicino evidenziando quanto sia più verde, ignorando scientemente la crescita esponenziale di Vlahovic, la solidità di un pacchetto difensivo tornato agli antichi splendori, l’agognata compiutezza di Locatelli nel cuore della mediana dopo anni in cui si pensava, non senza ragioni, che dovesse evolvere in mezzala. È un gioco vecchio come il mondo, un tentativo di scaricare la pressione sull’avversario togliendola dalle spalle di un gruppo che si è messo in testa da tempo di lottare per lo scudetto nonostante le sparate pubbliche dell’allenatore dicano tutt’altro. Superato il giro di boa, con la Juventus che per guardare le avversarie impelagate nella lotta Champions ha bisogno del binocolo, lo stratagemma non può più funzionare, e dire che i favoriti sono gli altri ha senso soltanto fino a un certo punto. I bianconeri sono lì e hanno il compito di rimanerci fin quando ne avranno le forze, perché se da un lato può starci la riflessione su un’avversaria più strutturata in termini di organico, bisogna anche ricordare che la Juventus ha un vantaggio non indifferente, cioè quello del riposo infrasettimanale. Un gap che l’Inter spera di dover fronteggiare a lungo – perché vorrebbe dire ripetere la cavalcata Champions dello scorso anno – ma che non può non essere considerato ai fini della valutazione sulle possibilità di vincere lo scudetto.   

Neanche Allegri sembra credere più a una Juventus emotivamente distaccata da questa rincorsa. Lo testimonia la leggerezza della scelta presa contro l’Empoli: tenere a riposo Danilo, diffidato, con lo scopo di preservarlo per il big match da un sanguinoso cartellino giallo. Non è il ragionamento di chi ha in testa il quarto posto, ma di chi vuole tornare a mettersi il tricolore sul petto. Ed è, allo stesso tempo, un pensiero che ha indirettamente indebolito i suoi giocatori: l’anima giovane della Juventus ha bisogno di una guida tecnica ed emotiva come quella rappresentata dal brasiliano, tanto più in una partita in cui mancava un altro porto sicuro come Rabiot. È stato quello, ben più della scelta di Milik in luogo di Yildiz, l’errore da imputare ad Allegri. Ma certe analisi sono figlie della drogata logica del risultato: nessuno gli avrebbe detto nulla se avesse raggiunto il successo contro l’Empoli, così come nessuno ha avuto qualcosa da obiettare nei confronti di Inzaghi che nel finale del Franchi ha scelto di rinunciare a Thuram prima e a Martinez poi. Se i viola avessero raggiunto il pari, l’Inter si sarebbe dovuta lanciare all’assalto senza la sua coppia gol titolare

Inzaghi, amante delle sfide a eliminazione diretta, proverà a giocarsi questo derby d’Italia come se fosse un dentro o fuori, vincere per andare avanti e non guardarsi più indietro; Allegri, cultore delle maratone, l’unico tra i due ad aver già vinto almeno uno scudetto, potrebbe decidere di mettersi a fare di conto, in attesa di tempi più densi di impegni per il rivale. Entrambi sperano che, alla fine, sia l’altro a salire sul ponte e a sventolare bandiera bianca.