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Il Foglio sportivo

Un'Italia a Cannone. Inizia il Sei Nazioni 2024

Marco Pastonesi

Intervista al numero 8 della Nazionale italiana: “Siamo giovani, la nostra forza è la voglia di crescere e imparare”

Inizia il Sei Nazioni. L'Italia debutta sabato 3 febbraio allo Stadio Olimpico di Roma contro la Nazionale inglese alle 15.15. Un anno fa la Nazionale italiana uscì da Twickenham con una dignitosa sconfitta.


Ventitré anni appena compiuti. Fiorentino di nascita, toscano e poi veneto di rugby, biancoverde (Benetton) e azzurro (17 presenze e cinque mete) di professione. Un metro e novanta per oltre cento chili. Lorenzo Cannone, Lorenzo come il Magnifico e Cannone come fuoco, battaglia, guerra. Ovale, neanche a dirlo.

Cannone, il primo pallone ovale?
“A 12 anni. Prima era rotondo”.

La prima squadra?
“A Firenze. Si chiamava Bombo. Un insetto, una specie di ape o vespa, grossa e infaticabile: l’obiettivo era proprio quello di muoversi, giocare e divertirsi. Bombo il minirugby e le giovanili, con maglie a strisce arancioni e nere, come l’insetto, Firenze Rugby Club i seniores. Dalla loro unione è nato il Florentia Rugby”.

La prima partita?
“Poco tempo dopo. Avevo già la voglia, anche la necessità, certo l’istinto a muovermi, giocare e divertirmi”.

La prima meta?
“Si giocava in una porzione di campo. Segnai quasi subito”.

La squadra stava all’Isolotto.
“E a don Lorenzo Milani sarebbe piaciuta moltissimo. Perché anche il rugby, come la sua scuola, è per unire e non dividere, è per legare e non separare, è per includere e non allontanare. Tant’è che c’è chi fa e chi considera il rugby come una missione. E poi don Milani sarebbe contento perché anche dall’Isolotto è venuto fuori qualche bel giocatore”.

Lei gioca in mischia.
“Una famiglia. Bisogna saper supportarsi e anche sopportarsi”.

C’è chi paragona la mischia anche all’equipaggio dell’otto con, canottaggio.
“Infatti il numero 8 viene chiamato anche ‘skipper’, capitano, comandante”.

Numero 8, come lei. Il suo compito?
“Conquistare anche la linea del vantaggio. Il primo comandamento è avanzare. Come quando, durante la Prima guerra mondiale, si usciva dalla trincea e ci si lanciava all’attacco”.

Gli avversari?
“Non li guardo, non li conosco. C’è tempo per farlo durante la partita. Ma prima li studio”.

L’arbitro?
“Senza, non si gioca. Anzi, senza, sarebbe una mattanza. Dunque: massimo rispetto”.

Paura?
“Sì, sempre. Inutile fingere che non esista. È sia fisica sia psicologica. Ma ci lavori, la combatti, la superi. Io lo faccio da solo. Molti altri si affidano agli specialisti”.

Dolore?
“Spesso. Ma ho una soglia alta. Come tutti quelli che giocano a rugby, altrimenti non giocherebbero, non potrebbero giocare”.

Fatica?
“Anche quella, sì, sempre. Fin dall’inizio, spesso verso la fine. Significa perdere in lucidità, in brillantezza. E fa la differenza. Ecco perché si dice che la vera partita cominci dopo un’ora di gioco”.

Rispetto, sostegno, lealtà… 
“I valori del rugby. Esistevano, esistono, esisteranno. Ancora, sempre. Davvero. È l’anima dello sport, lo spirito del gioco”.

Coppa del mondo 2023: due vittorie e due sconfitte. Che cosa ricorda di più?
“Le due sconfitte. D’accordo: contro All Blacks e Francia. Ma nessuno di noi si aspettava di perdere così, così tanto, così male”.

Che cosa le hanno insegnato?
“A non dare mai nulla per scontato. E a lavorare sempre di più e meglio”.

Qual è la forza dell’Italia?
“La voglia. La voglia di imparare, di crescere, di sfidare, di lottare. La nostra è una squadra ancora giovane”.

E la debolezza?
“Abbatterci nei momenti di difficoltà. Invece dovremmo esaltarci”.

Una squadra si misura sul più forte o sul meno forte dei suoi giocatori?
“Sulle somma delle caratteristiche più forti di tutti i suoi giocatori”.

Che cosa si attende da questo Sei Nazioni?
“Passi avanti. Le altre cinque – Inghilterra, Scozia, Irlanda, Galles e Francia – sono da sempre più forti. E i rapporti di forza non li cambi dall’oggi al domani”.

Prima avversaria, oggi pomeriggio, l’Inghilterra.
“Storicamente tosta, dura, fisica, prepotente. La prima battaglia spetta a noi della mischia. Non l’abbiamo mai battuta”.

Si gioca a Roma, all’Olimpico. 
“Confidiamo nel calore della nostra gente, del nostro popolo”.

Il suo rituale?
“Cuffie, musica, rap trap disco, poi l’inno, cantato a squarciagola e con tutto il cuore. Nient’altro. Niente prima una scarpa e poi l’altra, niente prima un calzettone e poi l’altro, niente prima un piede e poi l’altro. E niente segno della croce”.

Cannone, che cosa farà da grande?
“Non ci ho ancora pensato. Non ho neanche pensato se il mio futuro sarà dentro o fuori dal rugby. Intanto ci sono dentro: dentro il campo, dentro la mischia, dentro la partita”. E dentro, come direbbe don Milani, una missione.

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