Giannis Antetokounmpo - Foto Ansa

Il Foglio sportivo

Il rinnovo di Giannis Antetokounmpo ha salvato la Nba

Roberto Gotta

Il giocatore ha accettato un accordo da 186 milioni di dollari dal 2025 al 2028. Così ora la lega può continuare a mantenere la sua credibilità in tutti i mercati

Firmando il rinnovo del contratto con i Milwaukee Bucks, ha salvato la Nba. O quasi. L’ha salvata prima di tutto da se stessa e dall’avidità di alcuni suoi colleghi, anche se può sembrare curiosa un’affermazione del genere, parlando di un giocatore che ha accettato un accordo da 186 milioni di dollari dal 2025 al 2028 e di nuove regole, di cui leggerete, che la lega stessa ha approvato. Ma quella cifra era praticamente scontata, considerando i parametri della Nba, mentre meno scontato era che Antetokounmpo restasse a Milwaukee praticamente per tutta la carriera, iniziata ormai dieci anni fa. Ed è questo che può salvare l’attuale struttura della lega, che ha assoluto bisogno di mantenere credibilità in tutte le città, o meglio tutti i mercati, come, senza nemmeno fingere che si parli di sport e non di business, li chiamano i dirigenti. 

Se Giannis avesse deciso di lasciar scadere l’attuale contratto, mettendosi in mostra per altri club, ne avrebbe risentito Milwaukee come località, una delle tante che in tutte le leghe professionistiche americane devono costantemente lottare contro le metropoli per avere spazi e parità competitiva. Che sarebbe teoricamente parte del Dna stesso di Nba, Mlb, Nfl e Nhl, ma che nei fatti è costantemente messa alla prova dalle dinamiche contrattuali, finanziarie, economiche e di marketing. Nella Nba, poi, a queste complicazioni si è aggiunta da oltre un decennio la tacita intesa tra alcuni giocatori volta di comporre i cosiddetti superteam, le squadre tutte-stelle, accumulatori di talento, attenzioni e contratti pubblicitari a scapito di altre

Il peregrinare di Kevin Durant da Seattle (poi Oklahoma City) a Golden State a Brooklyn a Phoenix, sempre alla ricerca non tanto del contratto migliore quanto della miscela migliore di colleghi e staff tecnico, è emblematico di questa tendenza, accompagnata in tempi moderni da un narcisismo fuori misura che sfocia nel racconto autoreferenziale della propria carriera, e infatti non c’è superstar Nba che non abbia creato una propria casa di produzione di documentari, uno dei quali, immancabilmente, sul titolare e spesso indirizzati politicamente, e non per nulla si parla di un progetto nel quale sarebbero coinvolte le società di LeBron James e Barack e Michelle Obama. Questo atteggiamento di accentramento delle forze su pochi giocatori e poche squadre, costrette quasi ad arrendersi ai loro desideri, alla lunga ha preoccupato i vertici della Lega, consapevoli che la loro fortuna era dovuta non tanto al gioco – fino allo scorso anno, gli ascolti televisivi erano in calo costante – ma all’immagine, alla potenza dei social media, al fatto che l’abbigliamento dei giocatori in arrivo all’arena attirava masse di giovani tanto quanto le loro imprese sul parquet. 

Per evitare però che la concentrazione di stelle nelle squadre e nelle città migliori portasse a una decadenza troppo rapida di quelle provinciali, come Oklahoma City e appunto Milwaukee, il nuovo contratto collettivo di lavoro, un illeggibile tomo di 676 pagine ratificato lo scorso 1 aprile e valido per sette anni, pone limiti agli eccessi di spese e persino alla possibilità, prevista in altre leghe pro, di poter sfondare il tetto degli stipendi pagando una penale proporzionale. I team ora non possono spendere liberamente e pulirsi la coscienza amministrativa pagando la tassa o architettando scambi con somme complicate di stipendi o con la cessione o acquisto di scelte del draft di sei o sette anni più tardi: anche per questo ha sorpreso la decisione dello scorso maggio dei Phoenix Suns, gestiti dall’ex giocatore di college, e multimiliardario Matt Ishbia, di aggiungere a Durant e Devin Booker anche Bradley Beal, per un totale di 130 milioni annui per soli tre giocatori, più 33 dovuti a Deandre Ayton. O la va o la spacca: non potendo agire a livello di giocatori di valore intermedio, per via delle nuove regole, Phoenix spera che i tre di cui sopra, due dei quali (Durant e Beal) peraltro già sopra i 30 anni di età, siano sufficienti per la spinta al titolo. 

E con tutto questo freno posto dalla Nba, il rinnovo di Giannis è il segno che non c’è bisogno dei superteam e non c’è bisogno delle metropoli, per sentirsi belli e forti, segnale che i Bucks hanno dato prendendo da Portland Damian Lillard: una superstar, certo, che ha fatto la superstar imponendo di fatto ai Portland Trail Blazers di cederlo… Ma Lillard voleva Miami ed ha invece avuto Milwaukee, quindi la sua supponenza non è stata premiata fino in fondo. Viva i (relativamente…) piccoli club, allora, ricordando che curiosamente un segnale della forza paritaria della Nfl si verificò quando, nel 1992, primo anno del sistema di firma libera da parte dei giocatori senza contratto, il primo grande free agent, l’indimenticabile Reggie White, non scelse New York o Los Angeles ma Green Bay, poco più di 100.000 abitanti, fredda, sperduta e con poche opportunità pubblicitarie. E Green Bay, come squadra, tuttora esiste perché, con lungimiranza davvero profonda, negli anni Cinquanta un certo Wellington Mara fece pressioni perché la Nfl istituisse un sistema di redistribuzione equa degli introiti: Mara era il proprietario dei New York Giants e con la potenza economica di una squadra della Big Apple avrebbe potuto vincere tutto, ma si rese conto che senza parità competitiva la lega non avrebbe avuto vita lunga. Da Mara a Giannis, anche se non sembra, è un attimo.

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