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Il rugby sporco e opportunistico del Sud Africa è vincente

Marco Pastonesi

Viaggio tra le radici e i segreti degli Springboks che hanno vinto la Coppa del mondo battendo in finale gli All Blacks

Springboks. Gazzelle. Il simbolo della Nazionale sudafricana di rugby. Il simbolo meno adatto che si potesse immaginare. Meglio un rinoceronte. Meglio un leopardo. Meglio un bufalo. Più tosti, più feroci, più potenti, più terra-terra. Ma non la gazzella, così leggera e volatile.

Da rinoceronti, le Gazzelle sudafricane hanno conquistato, per la quarta volta in 10 edizioni, il titolo di campioni del mondo nel rugby. La prima volta nel 1995: contro gli All Blacks, “Invictus”, Nelson Mandela. La seconda nel 2007: contro l’Inghilterra. La terza e la quarta, nel 2019 e nel 2023, ancora contro Inghilterra e All Blacks. Nessuno ha vinto quanto loro.

Come per tutte le altre colonie britanniche, fu l’elite inglese a importare gioco, regole e spirito ovali. All’inizio era materia esclusiva degli inglesi: i contadini afrikaner – i boeri - di origine olandese erano considerati cittadini di seconda classe, i neri non erano considerati affatto. Vinti gli inglesi, gli afrikaner s’impadronirono del rugby, lo diffusero nei villaggi, lo imposero nelle scuole, lo resero sport nazionale. Ma sempre bianco. Quando gli All Blacks si recarono in Sudafrica, era il 1919, il nero Rajiv Wilson non fu autorizzato a mettere piede sulla terraferma e fu costretto a rimanere più di un mese a bordo del piroscafo che trasportava i suoi compagni da uno stadio all’altro. Sette anni più tardi ai maori neozelandesi fu proibito il soggiorno. Segregazionista e razzista, il rugby sudafricano fu contestato e boicottato dagli anni Sessanta, finché escluso dall’Onu sotto la pressione degli organismi di difesa dei diritti umani. A Dannie Craven, il padre del rugby sudafricano, si attribuisce la terribile sentenza: “Un nero, prima di giocare per gli Springboks, dovrà passare sul mio corpo”. Sarebbe successo, appunto, nel 1995, quando gli Springboks non solo furono ammessi (alla terza edizione) alla Coppa del mondo, ma la ospitarono e la conquistarono.

Il rugby sudafricano, da sempre, è fisico, muscolare, pesistico, è fondato sulla mischia, anzi, sulla prima linea della mischia, è potente e prepotente, è sporco e provocatorio, è utilitaristico e opportunistico, è prima la difesa poi l’attacco (gli hanno dato del “catenacciaro”), è prima la guerra poi lo spettacolo, è contare su un calciatore che traduca in punti l’inferiorità o l’indisciplina degli avanti avversari. Così com’è successo, ancora una volta, ed è stata esemplare, la finale di sabato scorso contro gli All Blacks. Quattro calci su quattro (più tre tentativi di drop, cioè calci di rimbalzo) e zero mete per gli Springboks, una meta (non trasformata) e due calci (su tre) per gli All Blacks. Oggi almeno la Nazionale sudafricana è integrata, bianchi e neri insieme, senza quote forzate come alla fine del Novecento.

Il rugby sudafricano è anche leggendario. Quella volta – era il 1955 – in cui uno dei British Lions in tour in Sudafrica fu costretto ad andare in ospedale per una piccola operazione e, al risveglio dall’anestesia, scoprì che i genitali gli erano stati dipinti con i colori della bandiera sudafricana. Quella volta – era il 1956 – in cui gli All Blacks ricorsero a un pilone-pugile categoria massimi, Kevin Skinner, per abbattere gli avversari con le buone o più spesso con le cattive. Quella volta – era il 1974 – in cui Bobby Windsor, tallonatore gallese convocato nei Lions, fu ricoverato in un ospedale di Johannesburg, probabilmente per un’intossicazione alimentare, invece il medico gli disse che aveva avuto un attacco di febbre Bok, una malattia comune che colpiva i rugbisti ospiti (ma i Lions si sarebbero imposti 3-0 nella serie contro gli Springboks). Quella volta – era il 1995 – che il piccolo Joost van der Westhuizen, mediano di mischia Bok, stese il gigantesco Jonah Lomu, ala Black, con un placcaggio esemplare. Quella volta – anni Ottanta - in cui un giocatore si presentò a Naas Botha, mediano di apertura degli Springboks e formidabile calciatore, e gli disse che giocava trequarti centro ed era un suo compagno di squadra (Botha non solo non gli passava mai, ma neppure lo guardava). Quella volta che – era il 1981 – gli Springboks giocavano a Auckland, in Nuova Zelanda, contro gli All Blacks, e da un Cessna lanciavano sul campo bombe di farina per protestare contro l’apartheid, una bomba colpì, infarinò e stese Gary Knight, pilone Black, ma su pressione dei capitani la partita continuò con la vittoria degli All Blacks 25-22.

Se ne riparlerà fra quattro anni. Nel frattempo, spazio al Four Nations, il torneo delle quattro grandi dell’emisfero sud (All Blacks, Pumas argentini, Springboks e Wallabies australiani), e alle due parentesi internazionali (il tour estivo e i test-match di novembre). Non sono previsti incontri con l’Italia. Finora: 15 vittorie sudafricane, una italiana (20-18, a Firenze, nel 2016). Diciamoci la verità: altra categoria.

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