Ansa

Il Foglio sportivo

Gli allenatori non danno più spettacolo senza analista

Michele Tossani

Come i “match analyst” stanno cambiando il calcio. Antonio Gagliardi, l’assistente di Mancini, si racconta

La situazione è complicata, la partita è difficile. L’allenatore deve prendere una decisione veloce. Che cosa fare? Una domanda che arrovella la mente dei tecnici ogni settimana, in ogni partita. Un tempo l’allenatore in questione avrebbe cercato di rispondere da solo al quesito o, al massimo si sarebbe rivolto al suo secondo. 

Ora, invece, col calcio che è diventato sempre più complesso, il tecnico in questione non si rivolge più al proprio vice, ma ad uno dei suoi numerosi assistenti. Con ogni probabilità, a uno (le grandi squadre ne hanno diversi a disposizione) degli analisti che, laptop in mano, sta analizzando la gara live.
L’analista allenatore (coach analyst o performance analyst in Inghilterra) è infatti l’assistente che si occupa di supportare il lavoro del tecnico dal punto di vista della tattica. Non a caso, alle origini, il nome che lo caratterizzava era quello semplice di ‘tattico’.

Successivamente, questa figura si è evoluta in quella del match analyst. Quando sono apparsi, una quindicina di anni fa, i match analyst di cosiddetta prima generazione erano essenzialmente degli analisti video con competenze tattiche e informatiche, queste ultime a livello soprattutto di taglio e montaggio dei video.

Il loro compito principale era quello di osservare le squadre avversarie, montando video che servivano poi al resto dello staff tecnico per introdurre ai propri giocatori le caratteristiche dei rivali di turno.

Questo lavoro poteva essere fatto anche a casa, lavorando da remoto. Il riferimento principale del match analyst era l’allenatore, che spesso andava anche a tratte con la società, al momento della firma, per il compenso del suo assistente video.

Il rapido evolversi delle strutture di supporto al primo allenatore, andato di passo con l’aumentata complessità del gioco (di cui parlavamo in apertura) ha reso il responsabile tecnico di una prima squadra professionistica sempre più simile a un head coach Nfl (dove, fra l’altro, non è affatto inusuale trovare coach che hanno cominciato come analisti). Un capo allenatore quindi, circondato da una pletora di assistenti che, durante la partita, si accomodano in panchina col mister o in tribuna, come spesso fanno i coordinatori degli attacchi o delle difese nel football americano.

Questo modello di match analyst 2.0 non è dunque solo un esperto di programmi video, ma diventa un allenatore a tutti gli effetti. Spesso senza un passato da giocatore professionista alle spalle (o da giocatore tout court) questa figura, se non ha i patentini necessari (molte volte però il club dove è tesserato lo aiuta a scalare la faticosa montagna delle certificazioni Uefa necessarie per diventare ufficialmente un tecnico) ha comunque delle conoscenze a livello di gioco anche superiori a quelle di qualche primo allenatore professionista. 

D’altra parte, per guidare la macchina serve la patente, ma non è detto che chi ce l’ha sappia poi effettivamente guidare o abbia più conoscenze automobilistiche di chi ne è ancora privo…

Il coach analyst rappresenta dunque l’anello di congiunzione fra il dipartimento di analisti di un club e il campo.

Ma il titolo vuol dire tutto e niente. Quello che conta sono i compiti in campo (sia in partita che durante la settimana), che possono essere diversi da club a club. A oggi infatti esistono diverse figure di coach analyst. Sammy Lander, per esempio, già con il Wimbledon, è un substitution coach, analista e allenatore specializzato nel suggerire i cambi da effettuare.

In Italia sta crescendo tutta una generazione di analisti allenatori come i vari Luciano Vulcano, Andrea Maldera, Francesco Farioli, Emilio De Leo, Sergio Spalla e Antonio Gagliardi.

Proprio quest’ultimo, assistente di Roberto Mancini, racconta che “la match analysis (MA) ha cambiato il calcio nel decennio 2010-20. Ha avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione tattica nel gioco. Prima le partite non si preparavano con lo stesso dettaglio, ma solo perché non esistevano gli strumenti che abbiamo a disposizione oggi. Prima, se giocavi contro il Foggia di Zeman, mandavi un osservatore che tornava indietro con disegni fatti a mano e una relazione scritta: non è la stessa cosa che avere le ultime trenta partite del Foggia”. 

“Una partita a scacchi? Ad alto livello si preparano così. Poi, certo, ci sono situazioni dinamiche ma le gare vengono preparate molto come partite a scacchi”. 

“Squadre con giocate meccanizzate si sono trovate svantaggiate dal fatto che ora c’è qualcuno che conosce le loro giocate e può bloccarle. Così le giocate meccanizzate sono praticamente sparite, se si escludono alcuni allenatori che sono top nell’organizzarle”.

“Da qui sono venuti i moduli fluidi e l’attenzione si è spostata sulla metodologia di allenamento, come alleno la squadra e come riesco a far passare i principi di gioco”. 

“La differenza non è solo l’idea ma la capacità di trasmetterla. Negli ultimi cinque anni e nei prossimi cinque, quella che farà la differenza sarà conterà la metodologia di allenamento”.

“Il collaboratore inizia a ragionare diversamente dall’analista. Non dice più al suo allenatore che l’avversario è forte nelle transizioni ma gli suggerisce quando e quali esercitazioni inserire nella settimana per affrontare queste situazioni”.

“Così alcuni analisti hanno seguito questa evoluzione partecipando alla consacrazione della MA come arma tattica per preparare le gare e adesso stanno seguendo questa evoluzione sulla metodologia, occupandosi di più di cose di campo”.

Questo percorso (per esempio nel mio caso) è anche un percorso formativo. Ogni allenatore deve essere un analista, non tutti gli analisti possono diventare allenatori perché hanno una forma mentis da analista. Altri invece sviluppano competenze che li rendono allenatori, vice o assistenti tecnici”. 

De Leo, ex assistente di Mihajlovic, ha seguito questa evoluzione. Dopo un passato di una decina d’anni come allenatore in prime squadre dilettantistiche e settori giovanili professionistici è iniziata la collaborazione con Sinisa.

“Inizialmente, durante la prima esperienza del mister a Bologna, collaboravo da remoto. Mi occupavo di organizzargli le settimane di lavoro, individuando le esercitazioni più appropriate in base all’avversario”.

“Poi ho collaborato anche quando Sinisa è stato allenatore della nazionale serba. Infine, a partire dall’esperienza con la Samp, il mio lavoro è diventato anche in prima persona sul campo”.

Da analisti a analisti-allenatori. Il futuro del calcio è già qui…