Sarri e Mourinho, foto Ansa

Il Foglio sportivo

Viaggio tra quelli che aspettano a una settimana dal via della Serie A

Marco Gaetani

Allenatori irrequieti di vedere le proprie squadre definirsi. Da Mourinho a Sarri, da Garcia ad Allegri, le scelte di comunicazione e il mercato delle squadre italiane

Una settimana all’inizio del campionato, poco meno di tre alla fine del mercato, molti, troppi allenatori che vorrebbero far loro lo sfogo di Estragone in Aspettando Godot: “Non succede niente: nessuno viene, nessuno va, è terribile”. Ma il modo in cui si attende qualcosa (o qualcuno) ci rivela parecchio della natura umana, della modalità scelta per reagire a quella che si ritiene un’ingiustizia, delle dinamiche che si innescano all’interno di un club nel corso dei due mesi più logoranti dell’anno, quelli in cui deve necessariamente succedere qualcosa, ma senza mai sapere bene cosa, specialmente in un campionato come l’attuale Serie A, ormai sempre più aggrappata a fattori che le società non sono in grado di controllare: l’offerta folle che arriva da un club arabo (o di proprietà araba), l’incertezza generata dall’assegnazione dei diritti tv dei prossimi anni, questo o quel giocatore che punta i piedi e chiede la cessione all’improvviso.

Rimanendo esclusivamente all’interno della zona europea, ci sono quattro allenatori che stanno aspettando, o hanno aspettato, in maniera profondamente diversa tra loro: Rudi Garcia, Maurizio Sarri, José Mourinho, Massimiliano Allegri, in rigoroso ordine decrescente di classifica. L’attesa del primo e dell’ultimo di questa lista è molto simile, ma parte da presupposti lontanissimi tra loro: se da un lato troviamo un allenatore appena arrivato e alle prese con un organico reduce nella sua interezza, eccezion fatta per l’addio di Kim, da un campionato pressoché perfetto, dall’altro c’è chi sa di non poter più sbagliare e forse anche per questo ha scelto di non avanzare eccessive pretese. Nonostante questo, sarebbe il principale artefice dell’opera di persuasione compiuta nei confronti di Romelu Lukaku, disposto a rinunciare al certo, rappresentato dall’Inter, per l’incerto bianconero. Uno strappo, quello del belga, che ci dice molto dell’ascendente che anche questo Allegri in versione decadente può avere nei confronti di un calciatore. Garcia, dal canto suo, non fa un fiato: Aurelio De Laurentiis lo ha riportato in Italia dal suo esilio dorato, uno dei pochi, se non l’unico, a compiere il percorso inverso sulla rotta più trafficata dell’estate, quella che dallo Stivale porta verso l’Arabia Saudita. Il francese si è rimesso al centro del villaggio quando pensava di aver perso l’occasione per tornarci e forse anche per questo motivo non alza la voce, non chiede rinforzi, si dimostra perfettamente aziendalista. Napoli, per Garcia, è l’opportunità della vita, meglio affidarsi al padrone del vapore, confidando nelle sue capacità organizzative e lavorando senza uscire dal solco tracciato da Luciano Spalletti.

A Roma, invece, spira un ponentino malandrino che ha scosso gli animi di Maurizio Sarri e José Mourinho, amici mai, eppure molto vicini nel rendere manifesto un malcontento che potrebbe placarsi a breve. Le voci di corridoio che davano il tecnico laziale insospettabile vincitore della singolar tenzone con Igli Tare, costretto ad alzare bandiera bianca dopo quindici anni da direttore sportivo biancoceleste, si sono scontrate con la realtà: dalle parti di Formello tutto deve passare sulla scrivania di Claudio Lotito, protagonista di un’estate da Re Sole. Sarri non parla, fa filtrare il proprio disappunto confidandolo a voci fidate come megafono: il vertice da dentro o fuori con il presidente ha prodotto frutti immediati (Kamada e Isaksen), anche se in ritardo rispetto a una tabella di marcia che lo avrebbe reso più felice, e l’impressione è che il discorso non sia ancora concluso. Quasi a confermare che, almeno per una volta, Lotito potrebbe aver preso uno spavento non messo in preventivo fino in fondo. Per settimane, addirittura mesi, José Mourinho ha scelto una comunicazione criptica, ridotta all’osso, nutrita da foto e storie su Instagram gettate in pasto al famigerato ambiente romanista, così disperatamente alla ricerca di notizie da provare a leggere in controluce ogni mossa del portoghese nel tentativo di scorgerci pensieri più o meno celati. E così, dopo ghiaccioli, pose ironiche con acquisti mai arrivati e ricordi malinconici di abbracci con Drogba, lo Special One ha deciso di uscire allo scoperto con un’intervista torrenziale, ricordando a tutti che è stato anche il dominio della parola a renderlo un numero uno a livello mondiale. Ha gettato acqua sul fuoco del suo presunto duello con Tiago Pinto e allo stesso tempo ha ricordato che avrebbe voluto maggior sostegno dalla società dopo lo sfogo contro Taylor, quindi si è fiondato su Instagram per ufficializzare, prima del club, l’addio di Ibanez direzione Arabia, quasi a voler far presente che con i soldi in cassa c’è da comprare, e in fretta, quell’attaccante di cui ha un disperato bisogno. “Ho chiesto un nome ma non è possibile prenderlo, così mi è stato detto”, ha dichiarato al Corriere dello Sport contando i giorni trascorsi dal grave infortunio di Abraham, a mettere ulteriore pressione su una situazione già prossima all’ebollizione.

“Quelli che aspettano” non sono certo finiti qui: da Paulo Sousa a Thiago Motta, la lista dei possibili Estragone è lunghissima e colpisce ogni fascia della classifica, questione di principio più che di obiettivi. È il gioco delle parti, un balletto al quale sembra impossibile sottrarsi, un rito sempre più frequente in queste lande desolate in cui i milioni arrivano soltanto su concessione altrui: no, non siamo più l’Eldorado.