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ciclismo

L'attesa è finita, inizia il Tour de France

Giovanni Battistuzzi

Da decenni non si aspettava con tanto trasporto la Grande Boucle. La speranza è che sia intensa e spettacolare quanto quella dell'anno scorso. Sarà sfida per la maglia gialla tra Pogacar e Vingegaard? Attenzione all'inganno del percorso

Èsempre parecchio complicato luglio. O quantomeno è complicato spiegare, soprattutto a chi non soffre del bisogno di pedalare o veder pedalare, il perché si preferisca il caldo di una casa con televisore acceso a tutto il resto, mare compreso. Il refrigerio dell’acqua ce lo dà la birra ghiacciata, al resto ci pensa la fantasia. È sempre stato parecchio difficile spiegare tutto questo. Ancor più lo è quest’anno, ora, in questi (e prossimi) giorni. Le tre settimane e spicci che determinano questa incomunicabilità iniziano oggi, sabato 1 luglio, e finiranno domenica 23. Tre settimane che sono ventun tappe, 3.404 chilometri, 56.609 metri di dislivello, che il Tour de France 2023. Ed è da anni, forse decenni che non lo si aspettava con così trasporto e curiosità un Tour. Forse dal 1998, per vedere cosa avrebbe fatto Marco Pantani dopo la vittoria al Giro d’Italia; forse dal 2000 per vedere se Lance Armstrong si sarebbe ripetuto e che cosa avrebbe saputo fate il Pirata. C’era sempre di mezzo lui però, Pantani. Pantani non c’è più, e l’attesa non riguarda l’affezione per la bandierina accanto al nome e cognome di un corridore. Di italiani ce ne sono sette, pochi – solo nel 1983 ce ne erano di meno, sei – ma buoni, quasi impossibile che uno possa riprendere da dove Vincenzo Nibali aveva interrotto nel 2014.

È attesa ben diversa quella per questo Tour de France. Molto più complessa, quindi più semplice, di un limitante orgoglio nazionale sportivo. È attesa per il bello. E la bellezza non ha minimamente a che fare con le bandierine degli stati (per quanto alcune siano particolarmente belle, ma qui si entra nel feticismo) che compaiono di fianco ai nomi e cognomi che riempiono gli ordini d’arrivo. Ha a che fare il gusto che si prova a vedere andar forte sui pedali. Ha a che fare con quello che è stato un anno fa, che si è ripetuto in primavera e sempre e ovunque quando Tadej Pogacar, Jonas Vingegaard, Wout van Aert, Mathieu van der Poel, Tom Pidcock, Julian Alaphilippe – o quantomeno sottoinsieme nutriti contenenti questi corridori – incrociano le loro traiettorie ciclistiche.

Alla Grande Boucle 2023, centodecima edizione, ci saranno tutti. E non saranno soli, c’è altra gente capace di far battere il cuore almeno dieci battiti più veloce. La speranza, nemmeno troppo nascosta, è che il Tour di quest’anno possa essere spettacolare almeno (quasi) quanto quello dell’anno scorso e chissà magari meglio, tanto per farci illudere – è un momento complicato abbiamo bisogno di illusioni – che il ciclismo ormai sia quello visto al Tour 2022 e al Fiandre e all’Amstel e alla Roubaix di quest’anno, un ciclismo dove si cerca la mattata indipendentemente dal rischio di poter saltare.

Corse che rimarranno a lungo nei ricordi, che hanno avuto il merito di creare attesa, illusione, danno sfogo alla capacità di inventare e alla possibilità di sperare che questo sport sia diventato, stia diventando, un lungo inseguirsi di momenti d’eccitazione. Non è però così. Non sempre almeno. Queste corse sono ancora un’eccezione. E per fortuna. Per fortuna perché sarebbe un pessimo risveglio riscoprire che non tutti i corridori hanno la resistenza, la forza, le capacità di soffrire e trovare una sana e consapevole libidine nel farlo. Il Giro ce lo ha fatto capire. Non è stato un brutto Giro, il problema è che il resto è meglio ed è meglio quando ci sono questi qui.

E questi si ritrovano in Francia, al Tour de France, che è ancora una festa nazionale itinerante, ma che fa festeggiare i paesi che attraversa nei giorni prima e nei giorni dopo. Forse non conta niente il contesto, senz’altro quasi non lo conoscono i corridori che si dannano per staccarsi e inseguirsi. Contra altro per loro: prestigio e montepremi. Il Tour è imbattibile in entrambi i campi. È imbattibile soprattutto per aver creato tutto questo mantenendo, almeno un poco, la capacità di far sentire tutti parte di qualcosa di grande, di grandioso, a una meravigliosa follia che si ripete ogni anno. Era così nel 1903, è così in qualche modo ancora, nonostante sia cambiato tutto, nonostante il Tour sia uno dei carrozzoni più grandi e logisticamente raffinati del mondo.

Il Tour de France è stato a lungo una storia ricorsiva. Cambiava poco, sapeva di essere la più antica corsa a tappe del ciclismo, faceva pesare questo. Ora si sta sbizzarrendo, sta dando sfogo alla fantasia, si diverte a creare orditi raffinati e complicati nei quali sistemare trame bizzarre, imprevedibili.

Quest’anno ha imbastito un percorso che sembra per scalatori purissimi: otto tappe di montagna, quattro arrivi in salita, tutte e cinque le catene montuose francesi (nell’ordine di apparizione in corsa: Pirenei, Massiccio Centrale, Massiccio del Giura, Alpi e Vosgi), salvo poi accorgersi che le salitone, quelle da una ventina di chilometri, grandi altezze e un’ora di ascesa, sono tre: Col du Tourmalet, Gran Colombier e Col de la Loze. E allora viene da chiedersi se non sia l’ennesimo coup de théâtre che il Tour vuole donarci, la capacità intrinseca di far credere una cosa e poi piazzarne in mondovisione un’altra, in modo da farci rimanere ancora una volta a bocca aperta a dirci: non era così che avrei pensato andasse. 

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