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La storia

Napoli e lo scudetto. È stata la mano di Aurelio De Laurentiis

Malcom Pagani

Il presidente della squadra partenopea, produttore cinematografico e lavoratore instancabile ma sopratutto cauto ha raggiunto un altro obiettivo. Ha dimostrato a tutti di avere sempre ragione

Vita, vittorie e miracoli del presidente degli azzurri campioni d’Italia che in attesa di godersi il meritato trofeo ha fatto splendere la più antica delle sue convinzioni: avere sempre ragione. Dicono che Aurelio dorma un paio d’ore per notte e che nelle rimanenti sogni a occhi aperti. Dicono che Aurelio sia inconsapevolmente marxista perché crede che senza conflitto non esista progresso. Dicono che Aurelio conosca la lezione di Curzio Malaparte “Non capirete mai Napoli” e abbia imparato che a volte, intuire, è meglio che sapere. Dicono che Aurelio sappia cambiare idea anche nell’arco della stessa frase. Dodici anni fa regalava pensieri gentili agli altri presidenti ai margini del sorteggio del calendario di serie A: “Siete delle teste di cazzo” e minacciava l’addio: “Voglio tornare a fare cinema”. Oggi degli omologhi pensa esattamente lo stesso, ma nel calcio è rimasto, ha trionfato e in attesa di lucidare i trofei ha fatto splendere la più antica delle sue convinzioni: avere sempre ragione. Gli altri spendevano, si indebitavano e si baloccavano con l’illusionismo contabile. Lui programmava, guadagnava e presentava bilanci in ordine. Il ragazzo con la Lambretta che da tardo adolescente si spiaggiava ad Anzio, correva scatenato tra il Flaminio e Piazza Euclide, era famoso per gli scherzi e a scuola non brillava per buona condotta è sceso dalla sella, ha trovato un altro mare a duecento chilometri da casa e si è laureato con il massimo dei voti. Luigi, il padre di Aurelio, napoletano spiritoso ed elegante, ideale profeta in patria di questo scudetto figlio di un ventennio partito dai campi di Chieti e Martina Franca, da grande giocatore di casinò avrebbe potuto essere fiero dell’erede. Ha puntato. Ha vinto.

 

E ora, nel finale di partita di chi aveva provato a far ridere gli italiani con il Cinepanettone, in luogo delle massime beckettiane “non c’è niente di più comico dell’infelicità”, si gode una festa che dimostra la dubbia parentela tra folklore e sostanza. Confonderli è un errore fatale e Aurelio ne è la dimostrazione. Cominciò nei sotterranei della terza serie con una squadra strappata al fallimento, un assegno da trentuno milioni di euro e il capitano Francesco Montervino a comprare magliette e palloni in un negozio di articoli sportivi in provincia. Non conosceva neanche le regole del fuorigioco e dalle banche, come dai taschini di certi arbitri, uscivano cartellini di un giallo che somigliava al rosso: “Alessandro Profumo di Unicredit mi disse: ‘Aurelio, ma che fai? Ti do tutto quello che vuoi per i film in America, ma sul calcio chiudo la cassa. Pensa che noi siamo interisti alla Moratti, per la squadra, non abbiamo dato neanche i soldi per il caffè’”. Aurelio se lo pagò da solo e lo gusta ancora a piccoli sorsi, come la vendetta. Non lo hanno capito? Peggio per loro. In un microcosmo di finti sceicchi e patrimoni virtuali, di improvvisati e di Flâneur, Aurelio ha ricostruito il suo mondo lavorando. Sveglia alle cinque, dossier aperti sul tavolo, rinunce. È andato a cento all’ora, come nella sua canzone preferita, ma non si è schiantato. L’uomo, devoto alla religione della scaramanzia, è sempre stato fortunato perché sarà anche vero la buona sorte è un affare complesso, ma il fiuto non te lo inventi. Il primo film di Ozpetek, Il bagno turco, ad esempio. Non lo voleva distribuire nessuno. Aurelio lo vide con un suo collaboratore, Tonino Carloni, in assoluto silenzio. A fine proiezione si voltò verso di lui e andò dritto al punto: “A Tonì, che dici?”. “E che te devo dì, Aurè? Commercialmente non vale un cazzo, al massimo può incassà mezzo miliardo”. Aurelio non gli diede retta e recuperò sei volte tanto. C’erano ancora le lire, ma non era abituato a mandare in fumo i patrimoni. C’era l’esempio di suo zio, Dino, da non deludere. C’era il suo nome sullo schermo, quando le luci, in sala, si spegnevano. C’era la forza di volontà. Buttò le sigarette un mese prima di compiere quarant’anni: “Un giorno, ne avevo trentacinque, ero sul set di Un borghese piccolo piccolo e chiesi a Mario Monicelli: ‘Mangi e scopi come un riccio, ma come fai?’. ‘Ho smesso di accendere le bionde quando avevo la tua età’. Rimasi zitto. Pensavo: ‘Ma a me fumare piace’. Così mi concessi una proroga: ‘Aspiro ancora qualche pacchetto, ma tra cinque anni smetto’. Chissà se Mario Appignani, ‘Cavallo pazzo’, l’uomo- balaustra che sosteneva che ci volesse più umorismo nel mondo del calcio e che ai tempi di un Roma in bilico tra l’era Ciarrapico e quella di Franco Sensi veniva catapultato in campo direttamente dalla Curva sud, sarebbe riuscito a far ridere Aurelio. L’uomo delle battute e delle freddure che ai ricatti corporativi del tifo organizzato e della politica ha sempre opposto, tra un ceffone e una carezza, il taglio dei biglietti agli assessori, gli investimenti effettuati e la sgradevolezza della verità. Definì il San Paolo “un cesso”. Fotografò lo scenario del principio senza temere il giudizio dell’Accademia dei Lincei: “Quando arrivammo in serie A apparve una classifica, eravamo al cinquecentoventitreesimo posto, mi dissi 523, bucio di culo aiutame te”. Vellicò, non sempre ricambiato, l’orgoglio della città: “Oggi siamo tra le prime dieci squadre del mondo, non abbiamo un euro di debito e abbiamo tifosi straordinari: da noi i razzisti non esistono, sono gli altri che ci danno dei razzisti perché hanno un complesso di inferiorità… e a noi non ce ne fotte un cazzo”. Poi disse anche altro e il resto di niente non gli venne perdonato. Visto da fuori, il rapporto di amore e odio tra una parte di Napoli e De Laurentiis, è incomprensibile. Diffidenza? Ingratitudine? Impazienza? È andata come andata, ma nello scatto finale, comunque, sorridono tutti. Prima, fino all’altro ieri, il rapporto tra i due poli era dialettico. Ma Aurelio che spesso si è irritato e non di rado, con più di una ragione, ha battuto i piedi, non si è fatto mai schiacciare. Dimostrando inattesa pazienza e come avrebbe detto Venditti “rabbia più di tutti”. Tra i cinque pezzi facili del Dela, un’enciclopedia che attinge all’ars retorica non meno che all’avanspettacolo, ha sempre trovato un posto d’onore la minaccia dell’abbandono. Prima la durezza:  “Ma che cazzo avete vinto a Napoli? Perché poi io me ne posso pure andare, perché poi uno si rompe i coglioni e se ne va!”, poi il richiamo alla missione comune: “Però se io devo stare qui bisogna che tutti quanti ci rendiamo conto, i tifosi per primi per i quali ho sempre detto che lavoro, che dobbiamo stare con i piedi per terra. Perché qui a Napoli non funziona un cazzo! Non è che dici “Sai a Napoli funziona tutto e poi c’è anche il calcio”. No, a Napoli c’è solo il calcio” con colpo di teatro a sipario quasi tirato, da standing ovation: “E allora, ringraziate”. Aurelio è sicuro di sé e anche se può capitargli di indulgere alla terza persona: “‘Tu non devi preoccuparti di Cavani o di Mazzarri, ma solo di una cosa, che il signor Aurelio De Laurentiis non si rompa i coglioni e non se ne vada... ma nun te preoccupà, perché io non amo il Napoli, io amo Napoli”, non mente. Ogni tanto sbaglia, ma come ogni buon potenziale portiere, sa che gli errori vanno cancellati immediatamente. Aurelio para i colpi, non dimentica niente,  fa tesoro degli errori e riparte. All’epoca di Sapore di Mare convocò Carlo ed Enrico Vanzina in un celebre ristorante a due passi da Fontana Di Trevi e invece delle monetine gli offrì di far migrare le loro avventure balneari sulla neve. Mangiarono, firmarono il contratto su tovagliolo come ai tempi in cui Steno, il padre dei due fratelli, lavorava con Alberto Sordi e vararono Vacanze di Natale. Mesi dopo, in proiezione, Aurelio si alzò rabbuiato. Non aveva capito il film, non gli era piaciuto e protestò. Carlo, rapido, gli chiese di aspettare: “Ne riparliamo a inizio gennaio”. Aveva ragione. E da allora, De Laurentiis replico l’esperimento fino alla consunzione. A volte va bene e a volte va male. I soldi vanno e vengono. Non se ne parla, pena la rissa:  “I giornalisti del calcio sono dei gran cafoni perché sono interessati solo ai soldi”, “Non si permetta”, “Mi permetto e le metto anche le mani addosso se continua. E sa perché? E sa perchééé (urlando). Perché non si può parlare sempre di soldi, nel cinema non si comunicano i cachet di attori come Pitt o la Jolie”. E quando si spendono non si rimpiangono. Per arrivare in serie B al Napoli di De Laurentiis servirono cento milioni. Ma il denaro ha un senso solo quando è speso bene. Per curare gli amici malati perché quando serve, Aurelio c’è: con Carlo Vanzina e Christian De Sica, in silenzio, seppe come fare. Per i piccoli vizi e per i grandi sogni. Per le mozzarelle migliori: “Sono tutte a casa di Aurelio” giurava Carlo Rossella e per il titolo di Campioni D’Italia che in un’epoca lontana, Aurelio, disprezzava: “Gli scudetti nel calcio li lascio agli altri. La mia ambizione è vedere una squadra internazionalmente riconosciuta. Sul nostro portale abbiamo avuto contatti da Polo Nord e Sud. Al Napoli deve interessare la Champions League. Serie A, B e C sono per novantenni”. Ora che meno di tre settimane gli anni saranno 74, Aurelio ha mutato prospettiva. Europa e mondo sono già arrivati, ma il nuovo potere si è spostato a sud. De Laurentiis aveva anticipato il cambio di passo con grande anticipo rilevando gli uffici della Filmauro, in faccia al Quirinale, proprio da Umberto Agnelli. Oggi c’è un solo presidente, si chiama De Laurentiis e il difficile arriva proprio ora. In realtà imparagonabili con Napoli, il successo improvviso lasciò solo macerie. Tra aspettative, pretese e follie vennero giù il Verona di Chiampan e la Sampdoria orfana della serena saggezza da secondo padre di Paolo Mantovani. A Napoli non accadrà perché Aurelio non fa il passo più lungo della gamba. Quando provano a ricattarlo, De Laurentiis si trova sulla stessa sponda di Nanni Moretti. Se nella vita è utile possedere almeno un paio di principi, la prima legge di Aurelio è “Non mi strozza nessuno”. Quando ci provò Edinson Cavani, sublime attaccante che proprio come in questi giorni accade a Osimhen, provocò estasi dalle parti dello stadio, rispose direttamente Aurelio. Prima impostò un discorso generale “Cavani firma un contratto a 1,3 milioni e coi premi arriva a 2, poi mi rompe i coglioni. L’anno dopo allora io gliene do addirittura 3, e poi non gli bastano e mi rompe di nuovo i coglioni. Ora dico basta” e poi valutò la possibilità di farlo “marcire” in panchina. I matrimoni con Aurelio durano anche tanto, ma fatto salvo il suo, in piedi quasi da mezzo secolo, quando finiscono, finiscono. Con i calciatori. E con gli allenatori. E’ successo con il suo preferito, un adorabile pirata friulano di frontiera: “il mio Clint Eastwood”, Edy Reja. E poi con Sarri, Ancelotti, Gattuso. Ora i professionisti dell’allarme preventivo si chiedono cosa accadrà domani con Luciano Spalletti scordando come per stare sotto lo stesso tetto, ricordava lo stesso Aurelio, la convinzione debba essere reciproca: “Nel matrimonio si è in due, puoi convincere con i soldi una moglie a rimanere, ma se ha deciso di scopare con un altro, scoperà con un altro”. De Laurentiis non ha mai fatto la formazione, ma in un’altra vita forse avrebbe fatto il commissario tecnico. Radunare talenti, educarli a vincere, esportare, come ha fatto a Bari in serie B, una certa idea di imprenditorialità.

 

Aveva le idee chiare, anzi chiarissime: “Negli ultimi cinquant’anni hanno distrutto il cinema italiano. Ora stanno distruggendo il calcio. L’Italia sta diventando una caricatura. Eravamo il Paese della pasta e della pizza, ora spuntano catene di Pizza Hut come funghi”. Non tutte sono diventate realtà, né nel calcio, né nel cinema. Ma se gli spettatori non rimpiangeranno di non aver visto recitare Monica Lewinsky e Ignazio La Russa, architetture di Aurelio rimaste nel cassetto, nessuno potrà negare che il disegno del calcio gli sia riuscito la perfezione. È stata dura, ma senza lotta non c’è premio. Dardano Sacchetti, sceneggiatore e antico compagno di cinema e di vacanze di Aurelio, sosteneva che mostrarsi forti  fosse un’antica lezione del geniale Dino De Laurentiis al figlio Luigi. Quasi uno stemma nobiliare. Un’impronta. Una firma. Un certo modo di non sembrare: “Ricordati, un produttore deve stare sempre a cazzo duro”. Non è dato sapere se Aurelio nei decenni abbia  indossato la faccia feroce per ascendenza o per indole naturale, ma l’ha fatto. Enrico Lucherini aveva coniato un soprannome, “Momenti di boria”, che stride con l’ultimo De Laurentiis. Inseguiva  un motivo: “Non ho mai cercato un Maradona che risolvesse tutto da solo, ma un’orchestra” e ha trovato una colonna sonora. Tanto gli basta e non ha bisogno di acuti, altari o beatificazioni. Qualcuno nelle ore successive al trionfo lo immaginava già al posto di San Gennaro, ma a parte un paio di lamentele sugli arbitri e a una dichiarazione d’intenti centrata sul desiderio di competere per la Coppa più importante, a sorpresa, ha vinto la sobrietà. Nessuna traccia del gaffeur di un’epoca lontana: “Purtroppo non siamo in grado, come Paese, di gestire l’ordine pubblico, s’è visto in occasione della scorsa finale di coppa Italia e per Roma-Feyenoord, quando s’è trattato di regolare il flusso dei tifosi olandesi nella Capitale: manco fossero nigeriani e lo dico con rispetto per i nigeriani” perché adesso lo straniero ha vinto veramente e se proprio devi trovare un artefice del miracolo, come dice Paolo Sorrentino, lo devi andare a cercare dalle parti di San Pietro: “E’ stata la mano di Aurelio”. E’ il nuovo Papa. Andate in pace. E così sia.

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