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Il Foglio sportivo

Il basket può salvare il mondo

Umberto Zapelloni

Dal campo alla vita: la lezione un po’ folle del professor David Hollander che ci insegna la grande forza della pallacanestro in ogni sua sfaccettatura, da Phil Jackson a Papa Francesco. Condividere lo spazio e collaborare per vincere

Il basket può davvero salvare il mondo? David Hollander, professore di Sport Business della New York University ne è così convinto che dopo aver organizzato un corso sull’argomento ne ha scritto un libro che arriva ora anche in Italia. “Come il basket può salvare il mondo. Tredici principi guida per reimmaginare ciò che è possibile”. Sono più di trecento pagine che cercano di spiegarci come grazie al basket e a quello che ci insegna questo sport potremmo stare tutti meglio. Non è necessario sentirsi come l’autore che racconta: “Con la palla tra le mani, sono come Artù che estrae Excalibur dalla roccia. Sono trasformato. Sono un’altra persona, in un altro luogo. E in quello spazio, lo spazio del basket, la vita è qualcosa di più, e io sono migliore”. Il pensiero da cui parte il libro è facile da capire: “Il basket è molto diverso dagli altri sport. Il suo spazio di gioco, 28 metri per 15, è di gran lunga più piccolo di quello di un campo da calcio o da football, che può essere addirittura quattro volte più lungo. I giocatori di basket, come in generale le persone nel mondo, devono muoversi in uno spazio condiviso. Per farlo, devono guardarsi da vicino e riuscire a capirsi. Senza equipaggiamento, sostanzialmente in mutande e canottiera, sono esposti l’uno all’altro – il compagno al compagno, il giocatore all’avversario, l’atleta allo spettatore – senza filtri e da molto vicino. E nel basket tutti gli atleti fanno tutto. A nessuno è proibito entrare in una certa zona del campo, o fare qualcosa in più o in meno di chiunque altro. Ci sono alcuni principi non negoziabili del basket che lo rendono diverso da altri sport: lo spazio ridotto, il requisito che non puoi semplicemente correre con la palla oltre o sopra qualcuno, devi passare per far avanzare la palla… tutti possono fare tutto, l’idea di assenza di posizione che nessun altro sport ha…”.  Il basket insegna a collaborare, a giocare di squadra, costringe a mettersi nei panni di qualcun altro e ad agire come lui. Ma è anche altro. Allarga gli orizzonti, insegna a lavorare con le persone e ad accettare origini e culture diverse: “Ha trasmesso – scrive Hollander – e continua a trasmettere un contributo efficace e influente nei più importanti dibattiti sociali sul razzismo, l’accessibilità, il genere, l’immigrazione, la cultura e il mercato. Nessun’altra attività ricreativa fa vendere più scarpe, stimola di più i social media e accende più interesse nei giovani.

 

Il gioco prospera praticamente ovunque, in ogni continente”. Ci sarebbe anche il calcio, a essere onesti, anche lì come ci insegna da anni Arrigo Sacchi, la differenza la fa lo spartito, l’organizzazione, la collaborazione tra reparti, ma nel calcio il centravanti non farà mai il portiere, nel basket abbiamo visto playmaker giocare anche da centri e fare la differenza come un certo Magic Johnson ci ha insegnato. “Nel basket la collaborazione non è il mezzo per un fine, ma sia il mezzo sia il fine”, teorizza l’autore chiamando a sostenere la sua tesi Phil Jackson, uomo da 11 anelli Nba, giocatore, coach e soprattutto guru: “Le buone squadre diventano grandi squadre quando i loro membri si fidano gli uni degli altri tanto da subordinare l’io al noi. Questo valeva anche per Michael Jordan. Non ci sarebbero stati i sei titoli Nba, se non avesse imparato a collaborare con Scottie Pippen”. In Nba ci sono stati giocatori icone come Bill Russell che alla domanda come si può fermare questo o quell’altro gigante, rispondeva sempre: “Io non potrei fermarlo. La mia squadra sì”. Collaborazione è il primo principio. Un principio da cui parte tutto il resto. Anche questo libro in fin dei conti considerando che in coda ha 51 (sì esatto cinquantuno) pagine di bibliografia dove vengono citati libri, articoli, discorsi che sono serviti a sviluppare il concetto da cui è partito tutto, ovvero che il basket può salvare il mondo.

 

Così scopri che una poetessa Mojave come Natalie Diaz ha scritto che “la palla da basket non è mai stata solo una palla da basket: è sempre stata una luna piena in questa atroce oscurità… il campo è l’unico luogo in cui non avremo mai fame: quella rete è il vuoto che possiamo riempire tutto il giorno”. Il livello sale. Tanto che a un certo punto incontrate tra le pagine Kevin Durant che al New York Times Magazine aveva detto: “Tutto il mondo mi sembra più luminoso. Per questo so che deve esserci qualcosa. Non è solo un gioco. Perché ho visto cambiare tutto il mio mondo. Non necessariamente per il successo o il denaro, è proprio che vedo la gente in un altro modo. Dio ha steso la sua mano su ogni campo, ovunque. È stupefacente. Mi commuovo, perché mi dico, cavolo, non sapevo che il gioco potesse farmi pensare cose così profonde, darmi emozioni così profonde”. D’altra parte sul basket è intervenuto anche Papa Francesco che non è solo un grande tifoso del San Lorenzo. Incontrando la federbasket italiana qualche anno fa aveva detto: “Il vostro è uno sport che eleva verso il cielo perché, come disse un ex giocatore famoso, è uno sport che guarda in alto, verso il canestro, e perciò è una vera e propria sfida per tutti coloro che sono abituati a vivere con lo sguardo sempre rivolto a terra”. Il libro è una serie di passaggi dal basket al mondo e viceversa. E’ come se il basket potesse confezionare degli assist a economia, politica, arte. In ogni comportamento cestistico Hollander legge una lezione di vita. Il suo è più di un amore per il basket. C’è un po’ di follia nel suo lavoro, ma anche tanta, tantissima passione. La sua è vera adorazione anche se sul campo, racconta, di essersi distinto solo per il record di falli tecnici che si è fatto fischiare.

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