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Il Barcellona non piace più

Andrea Romano

Dieci anni fa il club blaugrana guidato in panchina da Pep Guardiola era uno dei più amati al mondo, grazie anche alla retorica del club che si oppone al potere. Negli ultimi anni il club sembra aver ereditato più i vizi che le virtù del potere che voleva sovvertire

Per completare la metamorfosi ci sono voluti dieci anni esatti. Ma alla fine Anakin Skywalker si è trasformato davvero in Darth Vader. Tutto senza che nessuno se ne accorgesse. O senza che nessuno se ne volesse accorgere. Perché sul finire del 2012 il Barcellona non era più un club calcistico, ma un sentimento collettivo, un’entità che si era fatta portatrice di una carica morale. Era la società che aveva “salvato” Messi e lo aveva aiutato a diventare un giocatore dalla classe abbacinante, quella della Masia come scuola di pallone ma soprattutto di vita, quella della maglia senza sponsor, quella dall’autarchia del talento con Xavi, Iniesta, Piqué, Busquets e Pedro a scrivere letteratura sui campi di tutta Europa. Il dualismo con il Real Madrid di Mourinho aveva assunto una connotazione quasi filosofica. Blancos e blaugrana erano diventati due modi opposti e inconciliabili di vedere il calcio, ma soprattutto l’esistenza. L’illuminismo del tiki taka contro l’oscurantismo della verticalità, la morbida grazia della tecnica contro una muscolarità quasi robotica, l’afflato libertario di una comunità che chiede autonomia e indipendenza contro l’istinto accentratore dello stato. Ora però di quella squadra iconica costruita da Guardiola e Villanova non è rimasto più nulla. Perché negli ultimi anni il Barcellona sembra aver ereditato più i vizi che le virtù del potere che voleva sovvertire.

   

Nei filoni auriferi della cantera hanno regalato due pepite luminosissime come Pedri e Gavi, ma la partenza di Neymar ha generato una inestinguibile fame di nuovi acquisti. E molti si sono rivelati sbagliati. In sei stagioni il Barça ha bruciato una quantità di quattrini quasi pornografica, accatastando talenti, accumulando giocatori, come se fosse un Real Madrid qualsiasi. Solo che di galacticos non ne sono arrivati poi molti. Poco meno di mezzo miliardo di lire è stato bruciato per giocatori come Umtiti, André Gomes, Paco Alcácer, Paulinho, Semedo, Coutinho, Malcom, Arthur, Pjanic e Neto, tutti calciatori che nella migliore delle ipotesi hanno reso al di sotto delle aspettative. Per non parlare di Griezmann, acquistato dall’Atletico Madrid per 120 milioni e poi rivenduto ai materassi dopo appena due stagioni a più o meno a un terzo del prezzo iniziale. Una gestione svagata che due estati fa ha portato al mancato rinnovo del contratto di Messi per "problemi strutturali ed economici", ossia per l’impossibilità di superare il limite salariale imposto dalla Liga. La separazione di Leo dalla squadra della sua vita è diventata inevitabile e si è consumata in una cerimonia altamente emozionale, fra lacrime, salamelecchi e giuramenti d’amore. Tutto molto toccante. Solo che lo scorso gennaio sono stati pubblicati alcuni messaggi scambiati su WhatsApp fra l’ex presidente del club Bartomeu e alcune figure apicali della società. Tutto normale. O forse no. Perché Messi veniva chiamato costantemente «topo di fogna» e «nano ormonato».

 

La situazione economica è ancora più grottesca. Il club aveva accumulato debiti per 1.3 miliardi di euro. Significava essere tecnicamente morti. L’insediamento di Laporta ha portato a una politica di risanamento peculiare. Il numero uno blaugrana ha messo in sicurezza il club con un nuovo prestito da 600 milioni, poi la scorsa estate ha deciso di ipotecare il futuro della squadra, cedendo il 25% dei diritti televisivi dei prossimi 25 anni e i Barça Studios. La manovra ha portato nelle casse dei catalani circa 800 milioni. Una boccata d’ossigeno più corta del previsto. Perché un quarto degli introiti è stato utilizzato per il mercato. In pratica una società che correva il rischio di eclissarsi a causa di una gestione economica singolare ha potuto spendere impunemente più di 150 milioni per Raphinha, Lewandowski e Koundé, mentre Alonso, Kessié e Christensen sono arrivati a parametro zero. Una campagna acquisti sontuosa che suonava un po’ come una presa in giro per gli altri club rimasti appiccicati sulla carta moschicida del fair play finanziario.

 

Niente in confronto a quello che è emerso qualche settimana fa. Fra il 2016 e il 2018, infatti, il Barça avrebbe pagato 1.4 milioni di euro a una società che faceva riferimento a José María Enríquez Negreira, che all’epoca era vicepresidente del comitato tecnico degli arbitri. Negreira ha detto di aver svolto lavoro di consulenza: in pratica aveva spiegato a ogni giocatore come doveva comportarsi con ciascun arbitro. E le “lezioni” avvenivano a voce, visto che non è stata trovata alcuna documentazione in materia. In attesa che la giustizia verifichi la presenza di un reato, il Barça si trova a fronteggiare uno scandalo che rischia di minare la sua credibilità.

 

Insomma, quello che dieci anni fa era il regno felice della Disney ora è diventata la Mordor del pallone. Con buona pace di quella squadra che aveva fatto battere il cuore a tutto il mondo.

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