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l'analisi

La sentenza sulla Juve è una sconfitta non solo per i bianconeri ma anche per la giustizia sportiva

Umberto Zapelloni

La retromarcia dei giudici sportivi, il dramma della presunzione di colpevolezza e le ragioni che hanno portato alla disfatta della Juve. Cercasi garantismo

Dalla sentenza che condanna la Juve a 15 punti di penalizzazione non esce sconfitta solo la dirigenza juventina. Ad uscirne male è la stessa giustizia sportiva che pochi mesi fa, il 15 aprile 2022, aveva assolto la stessa Juventus perché le plusvalenze fittizie non potevano essere considerate reato in assenza di una norma che stiamo ancora aspettando da quando lo chiese apertamente la Corte d’Appello proprio dopo quell’assoluzione. Otto mesi dopo, quella norma non c’è ancora, ma mentre le altre società coinvolte sono state assolte, la Juventus si è presa 15 punti di penalizzazione e i suoi vecchi dirigenti sono stati tutti condannati fino ai due anni e 30 mesi di Andrea Agnelli e Paratici (nella giustizia sportiva le condanne equivalgono all’inibizione).

 

Pare chiaro che a convincere in poche ore la corte d’Appello della Figc non sia stato il comportamento sulle plusvalenze, ma la montagna di materiale emerso da intercettazioni e perquisizioni effettuate dalla giustizia ordinaria in merito all’inchiesta Prisma. Quattordici mila pagine che la giustizia sportiva ha scelto di considerare sufficienti per esprimere un suo giudizio. Svolgendo probabilmente il seguente ragionamento. Se senti un dirigente chiedersi “ma cosa raccontiamo per giustificare quell’affare?” e uno rispondergli “ci penso io a fotterli…” puoi non pensare che ci sia qualcosa che non va? Se trovi un cosiddetto “libro nero” in cui, tra le altre cose, alla domanda “come siamo arrivati qui?”, si legge la risposta di Cherubini: “Acquisti senza senso e investimenti fuori portata” con un “utilizzo eccessivo di plusvalenze artificiali”, puoi voltarti dall’altra parte? Il garantismo suggerirebbe che non bastano dei sospetti per accertare la colpevolezza di una squadra indagata ma la giustizia sportiva segue criteri che sfuggono alla presunzione di innocenza e questo è il risultato.

 

La Juventus è stata dunque condannata per il comportamento dei suoi dirigenti, finiti sotto la lente perché la società è quotata in Borsa e con quei comportamenti, secondo gli inquirenti, avrebbe infranto delle regole precise della Consob. Il tutto quando ancora si deve prendere in considerazione il materiale emerso dall’inchiesta sugli stipendi differiti (con la famosa lettera di Cristiano Ronaldo) che ha portato al processo penale in calendario il 27 marzo con 13 imputati tra cui il presidente Agnelli. In attesa di leggere le motivazioni che dovrebbero arrivare entro una decina di giorni, si può presumere che la Corte d'Appello abbia deciso di stangare la Juventus perché colpevole di aver infranto l’articolo 4 del Codice di Giustizia Sportiva che prevede si debbano osservare “i principi della lealtà, della correttezza e della probità in ogni rapporto comunque riferibile all’attività sportiva” e l’articolo 31 che parla di “violazione gestionale ed economica”, infrazione che avrebbe comportato una multa, ma che unita alla “falsificazione” dei bilanci per iscriversi al campionato può portare a punti di penalizzazione e addirittura alla retrocessione. Da questi articoli del CGS si capisce che cosa abbia fatto cambiare idea praticamente agli stessi giudici che l’avevano assolta. Giudici che grazie alla giustizia ordinaria erano entrati in possesso di nuove evidenze che, come consente l’articolo 63 del Codice di Giustizia Sportiva, permette di tornare su una vicenda che è già stata oggetto di un processo sportivo se “è stato omesso l’esame di un fatto decisivo che non si è potuto conoscere nel precedente provvedimento”.

 

Non sono, insomma, state condannate le plusvalenze (quindi l'oggettività dei valori dei trasferimenti, cosa che avrebbe portato a punire due club), ma i comportamenti emersi dalle intercettazioni che riguardavano solo la Juve. La Juve, come è chiaro, è finita nel mirino per aver cercato di nascondere le evidenze alla Consob, scatenando un’inchiesta della giustizia ordinaria che può contare su mezzi che la giustizia sportiva non ha. E qui si alzano i dubbi sull’efficacia di una giustizia come quella sportiva che, negli ultimi mesi, ha scoperto solo da un’inchiesta della giustizia ordinaria che il procuratore capo dell’Associazione italiana arbitri, Rosario D’Onofrio, ex ufficiale dell'esercito, era praticamente un narcotrafficante nel suo tempo libero. Se la Juve esce distrutta da una sentenza sportiva, il calcio italiano deve guardarsi allo specchio per chiedersi se tutto il resto funzioni. Nessuno vuole assolvere o giustificare la Juventus ma correre al riparo prima che crolli tutto il resto è inevitabile. Perché ricordiamolo, le plusvalenze non si fanno da sole e per fermarle non esiste ancora una legge. E non si può sempre aspettare la giustizia ordinaria per scoperchiare i presunti malaffari del pallone. Manca un sistema sportivo capace di vigilare su stesso. È questo è chiaro. Ma il fatto che la giustizia sportiva sia la culla della presunzione di colpevolezza non dovrebbe passare in secondo piano in una storia dove gli sconfitti oggi non hanno solo i colori bianco e nero.

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