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I 50 anni dei San Antonio sono un buon motivo per battere il record di spettatori in Nba

Roberto Gotta

Contro Golden State la franchigia texana giocherà all'Alamodome, che ospita oltre 64.000 spettatori, e non all'l’AT&T Center. L'obiettivo è superare i 62.046 che il 27 marzo 1998 al Georgia Dome di Atalanta guardarono gli Atlanta Hawks giocare contro i Chicago Bulls di Michael Jordan

Un matrimonio unicamente di convenienza, quello tra basket e grandi impianti. Un matrimonio americano, dunque: numeri e soldi, mascherando l’avidità dietro il paravento di tradizione e ricorrenze. È quello che accade a San Antonio per la partita contro Golden State, un venerdì di metà stagione, 50 anni quasi esatti dalla fondazione della squadra. Campo di casa, per una volta, non l’AT&T Center ma l’Alamodome, per ospitare oltre 64.000 spettatori e battere il record per una partita di regular season, detenuto con 62.046 dagli Atlanta Hawks per la gara del 27 marzo 1998 contro i Chicago Bulls: record dunque che era degli Hawks solo per procura, visto che tutta quella gente era di fatto andata a vedere Michael Jordan al Georgia Dome. Impianto ora sparito, al contrario dell’Alamodome che è una specie di miracolo: a livello di grandi eventi ospita infatti solo Final Four Ncaa una volta ogni tanto, in aggiunta a concerti, convention e partite di squadre con poco seguito, anche se la University of Texas-San Antonio ha avuto molto successo di pubblico, per cui è già tanto che sia ancora in piedi a trent’anni dalla sua inaugurazione, maggio 1993.

 

La città di San Antonio e la contea di Bexar l’avevano progettato per ospitare grandi manifestazioni ma soprattutto una squadra Nfl, mai arrivata se non temporaneamente, nel 2005, quando i New Orleans Saints vi giocarono tre partite a causa dell’indisponibilità del Superdome dopo l’uragano Katrina. Impianto tuttora moderno, grazie a varie ristrutturazioni, ha ospitato gli Spurs già dal 1993 al 2002: era il periodo in cui la proprietà, insoddisfatta della Hemisfair Arena, voleva allargare respiro e pubblico, ma la sistemazione all’Alamodome non fu mai ideale, perché il parquet era tutto da un lato e da quello opposto erano state costruite gradinate temporanee, alle cui spalle c’era un tendone a coprire la parte vuota. Lì, gli Spurs vinsero il loro primo titolo, quello del 1999, grazie anche al miracoloso tiro da tre punti di Sean Elliott che aveva dato la svolta alla semifinale contro Portland. Al Dome accaddero anche fatti curiosi, come la volta in cui l’esplosione di fuochi artificali attivò gli estintori e una cascata d’acqua precipitò dall’ultimo anello, causando il rinvio di quasi un’ora della partita inaugurale del 1994 contro… Golden State.

 

Fa impressione come sia cambiata la percezione degli Spurs, nei decenni: quelli del 1973 erano semplicemente i Dallas Chaparrals spostati in un’altra città, e come tutte le squadre della Aba, poi assorbite dalla Nba nel 1976, erano – o avevano l’immagine – di anticonformisti e ribelli, mentre dal 1999 in poi sono parte della élite della Nba e per via delle posizioni politiche più volte espresse dal coach Gregg Popovich sono fedele parte del sistema a tutti i livelli. Il tempo passa, anche per queste cose, e passa anche sul piano organizzativo: ora, come del resto accade da parecchi anni anche per la Final Four, che dal 1997 viene unicamente ospitata in impianti da almeno 50.000 spettatori, il parquet all’Alamodome non è più di lato ma esattamente al centro dello spazio disponibile. Il che permette di vendere tutti i biglietti possibili, appunto oltre 64.000, rispetto ai 40.000 che caratterizzavano invece la sistemazione di quei nove anni, ma toglie anche vivacità all’esperienza, dato che la visuale risulta mediocre da quasi tutti i posti. Io c’ero, ma non ho visto quasi nulla, insomma: dai posti anche solo a metà altezza Steve Kerr, l’allenatore dei Warriors che all’Alamodome ha vinto il titolo con gli Spurs, divenendo una sorta di assistente-giocatore di Popovich, ma che era anche nei Bulls dei 62.000 di Atlanta, sembrerà un puntino.