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IL FOGLIO SPORTIVO - IL RITRATTO DI BONANZA

Il bagliore di Mario Sconcerti

Alessandro Bonan

Era un fuoriclasse nel girare intorno ai fatti narrati, come uno squalo senza denti, per poi toccarli con la coda. Senza cattiveria, ma spaventando per il solo motivo di essersi portato sull’argomento con la consueta precisione, sicurezza, essenzialità

Arrivare al limite, senza superarlo. Dove quel limite sta per remora, piccola vergogna. Era una delle modalità di scrittura di Mario Sconcerti, quasi una sua regola non scritta. Sconcerti si portava sulla soglia dell’imbarazzo e si fermava lì, mettendosi a giocare con l’effetto prodotto dalla sua prosa. Provocatorio nella misura in cui ciò che scriveva determinava un dibattito. 
Era un fuoriclasse nel girare intorno ai fatti narrati, come uno squalo senza denti, per poi toccarli con la coda. Senza cattiveria, ma spaventando per il solo motivo di essersi portato sull’argomento con la consueta precisione, sicurezza, essenzialità. Sconcerti era chirurgico, tagliava e ricuciva con perizia. Si serviva dei numeri che aggiornava costantemente su un quadernone a quadretti. Però li usava con parsimonia e mai in maniera ottusa, e comunque sempre di meno, essendosi accorto da tempo di come l’era digitale avesse reso quell’abitudine ormai obsoleta. 

 

La sua modernità stava nel ragionare in maniera estremamente contemporanea. Mai ascoltato uscire dalla sua bocca frasi del tipo “un tempo era diverso”. Perché per Sconcerti il tempo era questo o altrimenti quello futuro. Vorrei chiamarlo Mario, in queste righe che mi sono state concesse. Potrei, in nome dell’amicizia che avevo con lui. Abbandonarmi a ricordi infiniti, lunghi quasi trent’anni. Ma penso che sia giusto cercare una distanza, per non sembrare complici di un timido dolore, trascurando la maestria dell’uomo in nome di un grande affetto. E quindi Sconcerti, dunque, stavo dicendo. Era uno di quelli che scriveva alla stessa maniera in cui parlava, con l’identica esattezza, punteggiatura, pause. Dal punto di vista gestuale (in tv i gesti sono importanti quasi come le parole), la sospensione era tradotta con un giro delle mani, come a prendere fiato per poi ricominciare. A volte mi sorprendevo a immaginarlo sulla tastiera di un computer, muoversi di notte (scriveva di notte), alla ricerca di un aggettivo appropriato, di una visione, di una luce. Il flash era il suo forte. Scriveva e parlava come avvolto da un bagliore, dentro al quale si perdeva senza smarrirsi mai del tutto, felice di guardare quella luce ad occhi aperti e raccontarti le sue suggestioni. Si ritrovava all’improvviso, chiudendo il concetto con frasi secche e senza appello, probabilmente stanco o più opportunamente preoccupato di diventare noioso. 

 

L’essere toscano ne ha assecondato l’ironia pungente, la quale non aveva altri obiettivi che se stesso, di cui sottolineava con il sorriso dei saggi l’inevitabile caducità. Forse per questo non aveva mai paura dei potenti e dei più forti. Perché, pensava, siamo tutti uguali, fugaci, leggeri come un soffio di vento. Esili, come la vita. 

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