Il giornalista Mario Sconcerti (Ansa) 

24 ottobre 1948 - 17 dicembre 2022

È morto Mario Sconcerti, l'anti-banalità: vedeva ciò che noi faticavamo a capire

Umberto Zapelloni

Se nè e andato a 74 anni, improvvisamente, alla vigilia della finale di un mondiale invernale che neppure lui avrebbe mai potuto prevedere. Nel mondo del giornalismo è stato tutto e ti sommergeva di idee, una più originale dell'altra. Anche quando esagerava lo faceva per stimolare una discussione, per continuare a giocare con le parole e i pensieri

Mario dovevi andare a leggerlo. Sempre. Perché un’idea, uno spunto te lo regalava sempre. E lo accompagnava con un’immagine delle sue che ti portavano lontano dal pallone, in un mondo che solo lui con la sua cultura poteva frequentare. Lo ascoltavi alla tv (Rai, Sky e ora Mediaset), lo leggevi sul Corsera e spesso ti deprimevi perché non avevi avuto un’idea così originale. Ogni tanto esagerava, certo, ma gli piaceva un sacco stupire. Consigliava di osare, ma di fermasi sempre un attimo prima di doversene vergognare. Ultimamente non rispettava il consiglio che ha dato a tanti ragazzi, ammirati dalle sue parole, bisognosi dei suoi consigli. Andava spesso oltre il limite, si lanciava in battaglie che solo lui con il suo sapere poteva difendere. Se nè e andato a 74 anni, improvvisamente, alla vigilia della finale di un mondiale invernale che neppure lui avrebbe mai potuto prevedere.

  

Ci siamo incrociati sotto lo stesso tetto solo per pochi mesi nel 2006 quando ero arrivato in Gazzetta su una sedia da vicedirettore che lui aveva occupato per anni. Era rimasto attaccato alla Rosea come opinionista. Toccava a me sentirlo al telefono, decidere su cosa farlo scrivere. E lui ti sommergeva di idee. Una più bella dell’altra. Una più originale dell’altra. Purtroppo quelle telefonate durarono poco perché a iniziò estate Mario divenne la prima firma del Corsera al posto di un altro gigante come Giorgio Tosatti. Il mondiale dell’Italia lo raccontò per il Corsera dove ha continuato a scrivere fino all’altro giorno, prima di un ricovero per degli esami di routine. In via Solferino aspettavano il suo pezzo per la finale del Mondiale. È arrivata una notizia dilaniante, neppure 24 ore dopo quella di Sinisa, uno con cui andava d’accordo perché amavano il calcio tutti e due.

 

Prima di innamorarsi del calcio aveva amato la boxe di cui il padre era stato un grande procuratore (lanciò tra gli altri Alessandro Mazzinghi), poi il ciclismo di cui aveva cominciato  a scrivere negli anni Settanta sul Corriere dello Sport prima di passare a Repubblica dove si inventò una redazione sportiva piena di talento prima di diventare poi il fondatore dell’inserto fiorentino del quotidiano di Scalfari. Firenze era il suo centro di gravità permanente, la Fiorentina il suo grande amore. Ne divenne anche amministratore delegato all’epoca di Cecchi Gori, in quella che diceva essere stata la parentesi professionale “più bella della sua vita”, prima di ripartire per nuove avventure giornalistiche tra radio, televisione e la carta dove riusciva a trasmettere meglio il suo enorme talento. Prima di lavorare con Cecchi Gori era stato direttore del Secolo XIX a Genova all’inizio degli anni Novanta, poi del Corriere dello Sport, dal 1995 al 2000. Nel mondo del giornalismo era stato tutto. Inviato, direttore, editorialista, scrittore di saggi e romanzi, commentatore in radio e in tv. Era l’anti-banalità fatta persona. Vedeva cose che noi umani faticavamo a capire. Anche quando esagerava lo faceva per stimolare una discussione, per continuare a giocare con le parole e i pensieri. Aspettavano il suo commento dopo questa finale del mondiale. Noi noi no lo leggeremo. Ma forse ne parlerà con Sinisa strada facendo verso l’infinito. 

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