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La Premier League si innova, ma alla fine resta sempre quella degli inizi

Roberto Gotta

Così si è realizzata la moltiplicazione dei diritti televisivi. Tutto è nato dal rinnovamento degli stadi. Ma a cominciare il cambiamento, dagli hooligan in poi, fu Taylor più che la Thatcher

Innovare per restare uguali, cambiare per non mutare identità. Il conservatorismo e l’attaccamento degli inglesi alle tradizioni sono un meraviglioso e riuscito espediente per mascherare una realtà fatta invece di costante creazione di nuovi panorami. Le tradizioni, insomma, come sguardo allo specchio di casa per controllare che tutto sia a posto, prima di uscire a conquistare il mondo. Con la Premier League, ad esempio, che parte in questo fine settimana, a trent’anni dalla sua prima edizione.

 

Sì, nuovo nome (quello originale in realtà fu Premiership) della vecchia First Division, con retrocessioni nella seconda serie e promozioni, ma tutto il resto era ed è rimasto diverso: perché dopo un secolo il massimo campionato passava dalla giurisdizione della Football League, la Lega, a quella della Football Association (FA), cioé la federazione, e per la prima volta i diritti televisivi furono negoziati a parte, con introiti moltiplicati fin dal primo anno: fino a quel momento, il contratto televisivo valeva per l’intera Lega di 92 squadre e solo dal 1986, su pressione di alcuni club, la redistribuzione aveva privilegiato quelli della massima serie, decisi però ad ottenere di più, molto di più.

 

Un passaggio epocale ma che non era altro che il frutto di un processo iniziato alcuni decenni prima. Quelli in cui, agli occhi dei tradizionalisti, di noi (tanti) tradizionalisti, il calcio inglese in realtà appariva come la concretizzazione di un ideale che ogni appassionato di pallone custodiva nelle emozioni: stadi compatti disegnati per la visuale ravvicinata del gioco, tattiche semplici, divise meravigliosamente nitide e colorate, un’epica del fango e del maltempo che non poteva non attirare chi cercasse di scostarsi dallo stereotipo italiano del catenaccio e del tifo striscioni-fumogeni-petardi, caciarone e autoreferenziale.

 

Sì, certo, lassù c’erano gli hooligan, brutta roba: ma erano un corpo estraneo ai club, schegge impazzite che rischiarono di distruggere il calcio e furono alla fine sconfitti in parte da se stessi, in parte da alcuni provvedimenti - ma non bisogna credere alla fola secondo la quale fu il Primo Ministro Margaret Thatcher a debellarli - e in parte dalla formazione della Premier League stessa, che si accostò, senza derivarne direttamente, alla riforma degli stadi richiesta da Peter Taylor, il magistrato a cui - questo sì - il governo Thatcher aveva chiesto una profonda indagine sulla situazione degli impianti dopo la tragedia di Sheffield del 15 aprile 1989, 97 morti schiacciati nella calca prima di Liverpool-Nottingham Forest, semifinale di Coppa d’Inghilterra. 

 

Era il periodo di sciagure dolose o involontarie, come l’Heysel e l’incendio dello stadio di Bradford con 57 morti, periodo in cui il Times era arrivato a parlare di "sport di pezzenti giocato in stadi da pezzenti e seguito da un pubblico perlopiù di pezzenti": il calcio inglese stava morendo (nel 1983-84 la media spettatori nella massima serie era stata di soli 18.851, meno della metà dei quasi 40.000 del 2021-22) e per salvarlo, per quel che lo riguardava, Taylor aveva concluso che gli stadi dovessero essere ammodernati e dotati esclusivamente di posti a sedere. Il balzo di questa palla fu catturato da chi stava pensando di creare una nuova lega: grazie a forti aiuti pubblici, molti impianti effettuarono la sistemazione, compensando la perdita di posti (lo storico Highbury, dell’Arsenal, passò dai circa 55.000 quasi tutti accalcati a 38.500 seduti) con un forte aumento dei prezzi.

 

Cioé proprio quello che Taylor aveva sconsigliato, per impedire che il calcio diventasse una passione per benestanti. La tempesta perfetta, insomma: già che c’era da cambiare, tanto valeva approfittarne per andare fino in fondo. E in questo fu fondamentale il ruolo dei diritti televisivi: tema spinoso addirittura dal… 1923, quando la casa di produzione Topical Budget comprò per circa 1000 sterline, equivalenti a 67.000 di oggi, il permesso di riprendere la finale di Coppa, che avrebbe poi mostrato nei cinema qualche settimana dopo. L’anno l’offerta arrivò da tre le società, 400 sterline l’una, la FA la ritenne troppo bassa e rifiutò, anche se la partita fu ripresa ugualmente in modo abusivo da cameramen entrati con telecamere nascoste in finti trofei e oggetti di cartapesta. Parliamo, giusto ripeterlo, di un secolo fa, e già si discuteva di diritti televisivi, o meglio diritti di ripresa.

 

Il tema si fece spinoso davvero quando la tecnologia permise le prime dirette: la stragrande maggioranza dei club non le voleva e ci fu anche chi disse "meglio le sintesi, gli highlight, i gol, ma non una partita intera. Ci sono troppi momenti morti e la gente si annoia, non potendo vivere le emozioni dello stadio" e fa impressione pensare quanto una teoria del genere, vecchia di quasi 60 anni, assomigli a quanto si dica oggi con riferimento a generazioni che preferiscono ricevere sul cellulare i gol e poco altro, senza dover perdere 90’ a seguire un’intera gara. Ottenuta dal 1986 la concessione già menzionata, i club più importanti non smisero di bramare maggiori guadagni e la nascita della Premier League fu lo sbocco naturale, abbinato alla necessità per BskyB, nome originale di Sky, di allargare il numero dei propri abbonati, fino a quel momento insufficiente, tanto che girava la battuta "che differenza c’è tra il mostro di Loch Ness e i programmi di Bsky? Beh, qualcuno il mostro lo ha visto davvero".

 

Il 18 maggio 1992, solo tre mesi (!) prima dell’inizio del campionato, Sky si aggiudicò i diritti, con un giochetto di cui ancora si parla: uscendo con una scusa dalla riunione dei club, il presidente del Tottenham Alan Sugar, non casualmente produttore di parabole satellitari, telefonò all’amministratore delegato di BSkyB Sam Chisholm per suggerirgli di aumentare l’offerta ed evitare l’assegnazione dei diritti a ITV, rete analogica. In realtà Chisholm era già stato avvertito da Rick Parry, capo della Premier League, e l’offerta incrementata stava partendo via fax: 304 milioni di sterline per cinque anni rispetto ai 262 di ITV, anche se Chisholm poi ammise che BSky avrebbe offerto addirittura il doppio, se fosse stato necessario. Una beffa per Greg Dyke, capo della ITV che aveva avuto e proposto ai club l’idea originaria di staccarsi dalla Football League, anche se nel 2013 fu poi eletto amministratore delegato della… Premier League stessa. 

 

Dai 304 milioni del 1992, pur con diverso potere di acquisto della sterlina, si è passati ai 5,1 miliardi del triennio 2022-25, e questa rivoluzione ha trascinato la lega al primo posto al mondo, rendendola irriconoscibile rispetto ai suoi stessi inizi: nei primi anni i giocatori stranieri erano pochi e generalmente scarti di altri campionati e il livello era più o meno quello precedente, mentre solo dai primi anni Duemila la Premier League cominciò a staccarsi e ad aprire la strada anche sugli acquisti, stravolgendo il panorama e creando, tanto per tornare ai discorsi iniziali, la percezione di una sistema così radicato da distorcere persino i ricordi: i tifosi dei vari club che nell’aprile 2021 scesero in strada per protestare contro l’annuncio della Superlega non si rendevano conto che la Premier League stessa nel 1992 nacque come Superlega. E se fosse stato per il Newcastle United, la ITV e la FA stessa, già nel 1955 (!) una decina di club inglesi e scozzesi avrebbero formato un nuovo campionato da giocarsi il mercoledì con partite in diretta televisiva. 1955: come dire, belle le tradizioni, ma lassù hanno sempre, sempre, sempre aperto la strada. 

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