AP Photo/Daniel Cole 

Alla bellezza imperfetta di Wout van Aert non serve vincere un Tour de France

Giovanni Battistuzzi

Il campione belga potrebbe un giorno puntare a vincere una grande corsa a tappe? Se lo chiedono in molti in questi giorni. Avrebbe davvero senso modificare l'imperfetta perfezione del suo ciclismo?

C’era Jonas Vingegaard sul gradino più alto del podio di Parigi, messo lì sugli Champs-Élysées in favore di prospettiva dell’Arc de Triomphe. Stava lì a gustarsi il momento, in maglia gialla, quella che l’altro, quello che stava alla sua sinistra, Tadej Pogačar, avrebbe voluto per sé dopo averla esibita in quella scenografia perfetta della grandeur ciclistica francese, nei due anni precedenti. In quel momento, su quel podio, una gran parte di chi ha visto quelle immagini ci vedeva un’assenza. E non era la mancanza del terzo, Geraint Thomas. Il gallese era là, contento per com’era andata, perché a trentasei anni compiuti c’era poco o nulla di meglio da chiedere a se stesso, soprattutto quando si ha a che fare con due come Jonas Vingegaard e Tadej Pogačar.

   

Foto Ap
   

Chi mancava in quel momento era colui che era salito sul podio poco prima con la maglia verde addosso, Wout van Aert. Non che il belga avesse diritto a salire su uno di quei tre gradini, nemmeno c’aveva provato nelle tre settimane di corsa. Non era il suo obiettivo, perché il suo obiettivo era tutto il resto: vincere tappe, esplorare fughe, aiutare il proprio compagno a portare a casa la maglia gialla, soprattutto, anche se non lo dirà mai, dimostrare che il ciclismo, quello che ci appassiona di più, suona molto simile al suo nomeecognome.

 

Eppure non c’era nessuna assenza su quel podio. Era quello il migliore riassunto possibile di tre settimane di corsa. Non aveva nulla che non andava, e se non c’era lì colui che aveva largamente contribuito a rendere uniche quelle tre settimane di Tour de France, Wout van Aert, questo era un pregio non un difetto, perché se il belga fosse salito su uno di quei tre gradini, probabilmente il Tour sarebbe stato diverso, probabilmente meno appassionante. Perché Wout van Aert era stato ovunque tranne che su quel podio. Era stato avanti a tutti, o almeno al gruppo, per seicentottantasette chilometri, come lui nessuno; s’era avventurato per pianure, per colline e per montagne; era passato prima degli altri sotto la linea d’arrivo per tre volte: da solo, in volata a salire, a cronometro; era fuggito e aveva inseguito, s’era messo davanti ai compagni per agevolare loro la strada verso la vittoria, a volte anche dopo fughe “sconsiderate”, perché all’apparenza prive di criterio. Eppure un criterio ce l’avevano, anche se non chiaro in principio, ma chiarissimo col senno del poi: renderci lampante la sua imperfetta perfezione – ha sbagliato più volte, ha commesso degli errori –, la possibilità di farci dire tra anni: io ho visto correre Wout van Aert.

   

ASO/Charly Lopez 
    

Wout van Aert è stato un terremoto, una scossa di eccitazione, un rimedio contro l’infelicità. Scriveva Alexander Lowen che “tenersi è una forma di controllo. Tenendoci, non permettiamo che il flusso dell’eccitazione scorra naturalmente, lo controlliamo. Questo tenersi […] finisce per diventare inconscio”, con tutto quello che ne consegue. Wout van Aert non si è tenuto. A dire il vero neppure Jonas Vingegaard e Tadej Pogačar nel loro corrersi e rincorrersi. Eppure non si sono tenuti in modo diverso, non peggiore o migliore, diverso soltanto. E sarebbe stato diverso anche Wout van Aert se avesse corso all’inseguimento della maglia gialla. Non l’ha fatto, non l’ha voluto fare, non era nei suo programmi. E la speranza è che continui a restare fuori dai suoi programmi, che non dia retta a chi gli sussurra che un giorno, con la dovuta preparazione, quella maglia gialla sarebbe alla sua portata. Una dovuta preparazione comporterebbe un cambiamento, e non solo degli obiettivi, forse anche fisico e, probabilmente, del suo modo di correre. Avrebbe senso? Avrebbe davvero senso modificare la bellezza, l’imperfetta perfezione dell’andare pedalando?

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