AP Photo/Daniel Cole

Pogacar vince ed è in maglia gialla. Al Tour de France ci sono buoni motivi per sorridere

Giovanni Battistuzzi

Wout van Aert attacca contro ogni logica e buon senso e perde il simbolo del primato. Eppure è proprio in questa sua fuga, cercata e trovata, e poi conclusasi con la perdita della maglia gialla che sta nascosta la straordianarietà del ciclismo

Il gruppo era a pochi secondi e c'era ancora una dozzina abbondante di chilometri da pedalare. Le possibilità di superare la linea d'arrivo prima di tutti erano pressoché nulle. Eppure Wout van Aert sorrideva. Sorrideva con la sua maglia gialla addosso e con attorno nessuno se non pubblico, ovviamente non pagante, lì per gustarsi l'effetto che fa vedere il Tour de France dal vivo, il suo scorrere veloce e colorato per le strade di Francia.

 

AP Photo/Daniel Cole 
   

Ci sarebbe stato nessun buon motivo per sorridere. Un economo non l'avrebbe fatto, perché gli economi stanno attenti ai conti, riescono mica a vedere otre al duepiùduefaquattro. Wout van Aert non è un economo, guarda oltre al duepiùduefaquattro, lì dove l'improbabile incontra il magnifico e si butta a capofitto a inseguirlo. È un romanziere Wout van Aert, uno di quelli che prendono spunto dalla realtà, la elaborano e la trasformano e finiscono per credere davvero che il loro mondo, quello che si sono immaginati, possa realizzarsi. E a volte lo realizzano davvero. Non oggi. Oggi la realtà, quella vera non quella che poteva essere, ha reclamato la sua centralità.

E la realtà ha un nome e un cognome, Tadej Pogacar. A Longwy ha vinto, ha indossato la maglia gialla, ha soprattutto fatto una decina di pedalate che hanno scavato un solco di una decina di metri tra lui e tutti gli altri. Una superiorità strepitosa.

Era mica il posto giusto, Longwy, per seguire l'improbabile, per provare a realizzare il proprio mondo perfetto. Perché Longwy è nata su cardi e decumani e si è poi evoluta seguendo ciò che è più reale di ogni altra cosa: il ferro e il carbone e la loro trasformazione. C'ha pure una cittadella fortificata che è l'emblema della razionalità. Non poteva essere altrimenti visto che è stata progettata e realizzata da un maresciallo, Sébastien Le Prestre de Vauban.

 

Foto  A.S.O./Pauline Ballet
    

Tadej Pogacar tutto ciò l'ha capito in extremis. Aveva provato a seguire Wout van Aert a inizio tappa, in quel incessante e caotico fuggire e inseguire che ha dominato l'inizio della sesta frazione del Tour de France. Sognava la rivoluzione, si è accontentato della restaurazione, quella del suo potere assoluto che ormai è alla seconda edizione, dopo il golpe nella cronometro che terminava alla Planche des Belles Filles. Era il 2020. Doveva essere il Tour de France di Primoz Roglic, si trasformò nel suo. Il primo. Il primo di due, che potrebbero diventare a breve tre, che potrebbero diventare tanti.

Wout van Aert invece tutto questo non l'ha capito, o forse non l'ha voluto capire. Deve mica vincere il Tour de France, van Aert. È in Francia per altro. Per aiutare Jonas Vingegaard a vincere la Grande Boucle, o quanto meno a salire sul podio, soprattutto a fare di tutto per rendere eccezionale questa edizione del Tour. Ci sta riuscendo benissimo. Anche quando scorrazza contro ogni logica e ogni buon senso per le campagne francesi con la maglia gialla addosso. Anche quando, proprio per questo scorrazzare, finisce per perderla e concederla a Tadej Pogacar. Poteva difenderla, doveva difenderla, si dice, si pensa, inseguendo la logica dell'economo. Poteva. Non l'ha fatto. L'economo scuote la testa, chi non bada al duepiùduefaquattro invece sorride, allo stesso modo guasone di Wout van Aert. Perché ci sono un sacco di motivi per sorridere nella vita, due di questi sono Wout van Aert e Tadej Pogacar.

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