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Il Tour de France è un riflesso su uno specchio deformante

Giovanni Battistuzzi

Alla Grande Boucle mancava solo una vittoria francese e la volata infinita. C'ha pensato di Christophe Laporte a sistemare le cose

Chi si è avvicinato al Tour de France da poco, qualche anno o qualche settimana, la bellezza di alcune cose non la può scorgere, perché quasi mai le ha viste. Per centocinquantatré chilometri ciò che c’era è riapparso in gruppo, non proprio quel che c’era, ma una versione aggiornata, parecchio rimodellata, ma comunque che dava l’idea di quello che chi si è avvicinato al Tour de France da poco, qualche anno o qualche settimana, non ha quasi mai visto.

C’erano una volta divani che ospitavano ragazzi che mentre i corridori pedalavano non guardavano i corridori ma altro, quello che stava attorno ai corridori e si perdevano a osservare che quello che in tivù chiamavano pianura non era davvero pianura e che certe colline sembravano più colline di quelle che c’erano in Italia e che esiste, lassù in Francia, anche spazio per l’assenza della centralità dell’asfalto e che distese e distese di campi non erano poi una noia mortale ma ti lasciavano negli occhi colori e tinte che si sarebbero trovati altrove, magari nei quadri, e chi vedeva questo, questo non lo scordava e capitava pure di farci bella figura con la tizia o il tizio che si aveva puntato, e pure qualche volta colpo, che mica solo gli adoni rimorchiano, a volte pure quelli che sanno dov’è Arles e Aix-en-Provence e pure le carrieres de Bibemus senza sapere minimamente nulla di Cezanne.

Quelle tappe, quelle lunghe e assolate tappe con trame tutte uguali – parte la fuga, il gruppo gestisce il distacco, il gruppo riprende la fuga, il gruppo lancia lo sprint, tal dei tali, spesso Mario Cipollini, vince lo sprint – erano anche un discrimine, un guado. C’era chi le guardava e non ci vedeva niente e poi iniziava a fare il cretino sugli scooter e a rimorchiare presto e spesso la più desiderata della scuola, e c’era chi le guardava e ci vedeva un mondo, continuava ad andare in bicicletta e rimorchiava dopo e quasi mai la più desiderata della scuola, ma alla lunga rimaneva decisamente più in forma. Quelle erano le tappe che ti facevano capire che il ciclismo era il proprio sport, quello e non un altro. Ci si annoiava? Sì, forse, ma mai davvero.

Al Tour de France certe tappe sono sempre più rare. Oggi per centocinquantatré chilometri il gruppo ha provato a ritornare a tempi che sembrano distanti anni luce, ma distanti anni luce non sono. C’era qualcosa che non andava però. Perché in quei Tour lì, quelli dei divani che ospitavano i ragazzi che non guardavano i corridori, certe tappe come quelle di oggi, quelle di fine Tour, la fuga prendeva i quarti d’ora ed era più affollata e il gruppo se ne fregava alla grande di quello che succedeva. Quei centocinquantatré chilometri erano una trappola della nostalgia, erano un riflesso su uno specchio deformante.

Negli ultimi trentacinque chilometri il Tour de France del 2022 è uscito per quello che è, un fremito continuo, una birra dietro l’altra e senza neppure il tempo di alzarti per andare al bagno. Cosa pensasse di fare Tadej Pogacar a una trentina di chilometri dall’arrivo scattando lo sa solo lui, ma l’ha fatto, perché si sa mai e un Tour lo si può rivoltare pure così. Non ha fatto lo stesso Marco Pantani nel 1997 centrando il podio sfruttando la distrazione di Bjarne Riis? Oggi Pogacar ha rosicchiato cinque secondi a Vingegaard, che non sono niente, e allo sprint, Pantani qualcosa, molto, di più.

Non è andato da nessuna parte Pogacar, ma ci sono andati Jasper Stuyven, Alexis Gougeard e Fred Wright. Sono degli idealisti Stuyven, Gougeard e Wright, non frega niente a loro del calcolo delle possibilità, per loro vale unicamente un ragionamento: se si parte è inutile pensare a dove arrivare, si deve pensare a partire, poi si sa mai.

È andata male, ma mica di troppo. È andata male soprattutto perché oggi Wout van Aert aveva deciso, l’avevano convinto, che non era il giorno di pensare a sé, ma agli altri, la maglia gialla soprattutto, e poi a colmare un vuoto. Poteva un francese non vincere in Francia? Certo. Però un francese la Jumbo-Visma ce l’ha in squadra ed è uno che ha dato più di tutto se stesso – era un velocista che è diventato universale e per di più tira in salita per i compagni – e allora valeva la pena dare una mano. Ha riportato tutto il gruppo a due passi dagli avanguardisti (con una mano grande anche di Mattia Cattaneo). Poi ha fatto tutto Christophe Laporte. E ha fatto tanto e intelligentemente e tutto bene. Perché ha allungato sul gruppo presto,  perché ha sfruttato il lavoro dei corridori in fuga che non volevano essere ripresi come fossero pesci pilota, perché si è fatto tre quattrocento metri di volata. Sotto il traguardo c’è arrivato per primo, primo, solo, primo francese a vincere quest’anno.

Al Tour de France 2022 mancava solo la volata infinita per essere completo. Ci ha pensato Laporte.

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