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Tour de France. L'arte di Magnus Cort

Giovanni Battistuzzi

Il danese vince a Megève, XXI arrondissement di Parigi, almeno per Jean Cocteau. La tappa viene interrotta da una protesta di chi manifesta contro i cambiamenti climatici. Dovrebbe essere fiero il Tour: vuol dire che ancora genera interesse mondiale

Dovrebbero essere fieri gli organizzatori del Tour de France che la tappa di oggi sia stata interrotta da un manipolo di manifestanti che protestavano contro i cambiamenti climatici. Dovrebbero essere fieri perché questo dimostra, ben più di tante parole, che ancora la Grande Boucle genera interesse, è un evento stimabile e capace di attrarre attenzione. Se le proteste non interrompono le corse è perché le corse sono diventate meno importanti e se le filano in pochi. Il ciclismo passa per le strade, non è uno sport che si rinchiude in luoghi distanti dalla realtà di ogni giorno. Per questo le realtà di ogni giorno entravano, quasi sempre, nel flusso del racconto ciclistico.

Certo l'organizzazione poteva gestire meglio la protesta, evitare, fermando prima i corridori, che i manifestanti potessero diventare un pericolo per chi fatica in gruppo, per chi si danna per cercare di conquistare un successo di tappa. Ma questo è un altro discorso, riguarda chi il Tour lo guida e non chi crede che il Tour sia un ottimo teatro per far sentire la propria voce, una voce che si sente spesso e in quasi tutti i luoghi.

Una voce che si è levata a valle e ha raggiunto le cime montane, lì in quel “XXI arrondissement di Parigi” fuori posto e pure fuori tempo ormai, che di Jean Cocteau non ce ne sono più e non ne fanno più. Lo scrittore e poeta finì a Megève per una conferenza e si ritrovò immerso nella nobless culturale parigina, la stessa noblesse che evitava come la peste a Parigi. Era un posto raffinato Megève. Lo è ancora, tutto sommato, ma meno. Almeno fino a ieri.

Perché da domani ritornerà a esserlo, ma ciclisticamente. Ha vinto Magnus Cort, in volata, ma all'insù, con la strada che tirava verso il cielo, ma al modo di sempre, ossia sfruttando l'arte nella quale eccelle, il colpo di reni, ossia l'estensione della volontà di vincere, l’ultimo atto della ricerca di non essere fregato. E non c'aveva voglia, Magnus Cort, di essere fregato questa volta, che già per giorni si era infuturato dal gruppo cercando di raccogliere gloria e aveva finito per stringere una maglia a pois che è prestigio e simpatia, ma che sapeva, Magnus Cort, che non sarebbe mai riuscito a portare a Parigi, perché certi vessilli alla fine se li prendono sempre gli scalatori e lui scalatore non è. Non è tante cose Magnus Cort, e forse per fortuna verrebbe da pensare, perché a non essere tante cose, si finisce per essere tutto e in ogni dove, che nel ciclismo significa in ogni (o quasi) fuga: sono seicentotrentasette chilometri su milleseicentoquarantanove, ma tredici era a cronometro, quindi non valgono, ossia quasi il quaranta per cento del Tour a farsi rincorrere.

Ha vinto Magnus Cort davanti a Nick Schultz, che non è parente degli Schultz di Parigi che animavano le sere di Megève all'epoca di Cocteau, è australiano, ma ben ci sta ugualmente in un ordine d'arrivo. Soprattutto assieme a Luis Leon Sanchez, che ha due nomi che in quelle serate ci sarebbero stati a pennello, tanto quanto lui sta a meraviglia in ogni fuga che il ciclismo ci dona. Era uno dei tanti nell'avventura avanguardista di oggi. Ne mancava qualcuno, ma ne manca sempre qualcuno, ma c'è poco da fare gli schizzinosi quando a cercar fortuna avanti al gruppo c'è gente come Dylan van Baarle, Ion Izaguirre, Edvald Boasson Hagen, Simon Clarke (che ha vinto ad Arenberg, sul pavé del Tour), Pierre Rolland, Alberto Bettiol, Filippo Ganna, Lennard Kämna e i nomi che porteranno il presente nel futuro delle fughe: George Zimmermann Fred Wright, Andreas Leknessund e Matteo Jorgenson.

A Mengève Tadej Pogacar è rimasto in maglia gialla per undici secondi. S'è fatto un gran sprint per mantenerla che quasi guadagnava qualche secondo ancora sui rivali. Lo ha fatto perché era giusto farlo, giusto per lui, perché quando si ha a che fare con Tadej Pogacar quello che c'era, che conoscevamo, lascia il tempo che trova. Vale la sua volontà, la sua irrefrenabile voglia di stare davanti e fare a modo suo. Che, almeno per ora, sembra il modo migliore.