Giro d'Italia. L'Etna è uno sforzo d'ottimismo. Vince Kämna

Al rifugio Sapienza arriva la fuga. Il tedesco della Bora l'anno scorso aveva  pensato di smettere, oggi ha vinto il primo arrivo in salita del Giro. Juan Pedro Lopez è  la nuova maglia rosa. Nibali e Dumoulin in difficoltà

Giovanni Battistuzzi

Nei piani dell’ingegnere Oliviero Scuto il rifugio sull’Etna che prese il nome di Giovannino Sapienza, il fratello del principale finanziatore dell’edificio morto durante della Seconda guerra mondiale, doveva essere soprattutto un luogo per ribaltare la visione del mondo e della Sicilia. Era un’ottimista l’ingegnere Oliviero Scuto, uno di quelli fermamente convinti che i luoghi possono essere determinanti per il miglioramento delle persone, per permettere loro di inseguire i propri sogni.

 

Il ciclismo in qualche modo vive dello stesso ottimismo. Soprattutto quando si abbandona il piano e si inizia a salire verso le cime dei monti.

 

Giù, a valle, quando la salita è ancora un’incombenza futura e non un presente da pedalare, sono tanti, la quasi totalità, quelli che sono convinti di poter realizzare i propri obbiettivi. Non si pedalerebbe un Giro d’Italia se non fosse così, se non ci fosse la convinzione, più che la speranza, che tutto possa andare come si vorrebbe che andasse. Chi ha centrato la fuga sa che le possibilità di arrivare in cima prima del gruppo esiste, chi punta a staccare i rivali sa che può farcela, chi punta a non staccarsi che può resistere. Va mai davvero così. O almeno non per tutti. Ogni montagna però ha la capacità se non di ribaltare, quanto meno di modificare la visione del Giro. Soprattutto se è alta e lunga.

 

La prima è solitamente la più fortunata. Non avendo punti di riferimento antecedenti, una modifica dello status quo è decisamente più semplice.

 

L’Etna è da qualche tempo che al Giro ha il compito di prendere l’ottimismo di tutti e selezionarlo, indirizzando le velleità dei corridori, aumentare o ridimensionare le speranze. D’altra parte è una salita lunga, impegnativa, ma decisamente affrontabile. Una salita che non invoglia al cambio di ritmo, allo scatto risolutore, ma agevola una veloce ascensione collettiva, con tanti saluti a chi non riesce ad adeguarsi alla processione di gruppo.

 

Avvicinandosi all’Etna i quattordici avanguardisti (Mauri Vansevenant, Valerio Conti, Davide Villella, Juan Pedro Lopez, Rein Taaramae, Stefano Oldani, Lennard Kämna, Remy Rochas, Alexander Cataford, Diego Camargo, Lilian Calmejane, Gijs Leemreize, Erik Fetter e Sylvain Moniquet) avevano un’unica necessità: tenere alla giusta distanza il gruppo, mantenendo le energie bastevoli per evitare di staccarsi. Una volta raggiunto questo obbiettivo, si inseguiva il secondo: rimanere tra i primi e, in caso, cercare di tener lontani tutti gli altri.

 

Stefano Oldani è stato il corridore che più si è avvicinato all’ottimismo dell’ingegner Oliviero Scuto. Ha lasciato la compagnia di tutti quando la salita ancora non era iniziata e ha provato a imporre il suo ribaltamento della visione del mondo e della Sicilia. Non gli è andata granché bene, ma quantomeno c’ha provato. L’Etna è una montagna che impone la necessità di far di calcolo. Fosse solo per rendere omaggio al fatto che una parte della vulcanologia moderna ha preso il via grazie allo studio di questo vulcano.

 

I calcoli giusti oggi li ha fatti Lennard Kämna. Un po’ perché dopo i brutti mesi dello scorso anno, nei quali gli era venuto più di un pensiero di abbandonare tutto e considerare la bicicletta solo una passione e non più una professione, aveva deciso che far di calcolo era una sciocchezza e serviva stare tranquilli e godersi il momento. Un po’ perché, in fondo in fondo, uno che va forte a cronometro, e il tedesco ci è sempre andato, sa benissimo valutare, e in un attimo, a quale velocità massima pedalare per non appesantire fiato e gambe e fino a dove può spingere il suo corpo.

 

Kämna ha accelerato, si è sbarazzato di Taaramae, Vansevenant e Moniquet, ha ripreso Lopez che intanto aveva scalzato Oldani dalla testa della corsa e lo ha battuto in volata. Juan Pedro Lopez, sotto lo striscione d’arrivo ha preso a pugni il manubrio per il secondo posto. Fa mai piacere guardare da vicino la schiena di chi festeggia. Il fastidio gli è durato però poco. Il tempo di salire sul podio con la maglia rosa addosso. E non sarà proprio semplice scalzare da lì lo spagnolo.

 

D’altra parte Mathieu van der Poel non si è dannato per difenderla e Simon Yates non si è affannato per conquistarla. Come non ha fatto nessuno di chi dice di voler salire sul gradino più alto di questo Giro d’Italia.

 

Il gruppo ha concesso due minuti e trentasette secondi ai primi, forzando solo un po’ il ritmo per mettere minuti sul groppone di chi gli si erano impallate un po’ le gambe a causa del giorno di riposo e del trasferimento in aereo. Succede sempre. Questa volta è capitato a Domenico Pozzovivo, ma quasi alla fine e soprattutto dopo tanti: una ventina di secondi non sono tanti, ma sono qualcosa comunque.

 

Perché prima era capitato a Tom Dumoulin, finito a sette minuti e mezzo; a Bauke Mollema che ha lasciato sull’Etna due minuti e mezzo; a Vincenzo Nibali e Tobias Foss che hanno perso due minuti e venti; a Guilleurme Martin, arrivato un minuto e mezzo dopo quelli che sognano la rosa. Quelli che hanno visto Richard Carapaz prodigarsi in uno sprint che è più una pisciata sul territorio che una dimostrazione di forza. Un modo per avvisare che lui fa sul serio e che il prossimo sarà ben più lontano dal traguardo. C’è ottimismo pure in questo.