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Tour de France. Il sogno imberbe di Vingegaard

Giovanni Battistuzzi

La maglia gialla ha vinto la settima tappa del Tour de France davanti ala danese. La Super Planche des Belles Filles è una ridondanza polverosa

La Super Planche des Belles Filles è una ridondanza polverosa, un paio di rampe verticali da scalata a mani nude più che da scalata in bicicletta. Un chilometro scarso che è un prefisso Super, che trasforma la Planche des Belles Filles da salita dura a salita più che dura. Un più aggiuntivo a una sommatoria che prima di quel Super dava per risultato il volto scavato e sofferente di Lennard Kämna e che poi, invece, lo ha sostituito con quello sorridente di Tadej Pogacar. Sta anche qui la ridondanza.

 

Kämna aveva provato ad anticipare tutti. Aveva centrato la fuga giusta, l'aveva alimentata e soprattutto fatta alimentare a forza di pedalate potenti, quelle di Maximilian Schachmann, poi aveva puntato al traguardo, alla grande giornata di festa, cosa che gli era riuscita pure nel primo arrivo in salita del Giro d'Italia, sull'Etna. Era pure apparso per primo lì nel pianoro della Planche des Belles Filles, in quel elegante e fotogenico arrivo a favor di telecamera che faceva apparire dal nulla il vincitore di giornata. Era una gran trovata scenica La Planche des Belles Filles, uno dei migliori finali possibili televisivamente parlando. Il traguardo però era più su e Lennard Kämna non l'ha superato per primo. Non siamo così ingenui da pensare che senza quei novecento metri di sterro sarebbe andata diversamente. Le dinamiche di corsa si sarebbero probabilmente accelerate prima. I se sono fastidiosi tanto quanto le formiche che ti salgono sulle gambe. Vanno levati di torno i se. Ha vinto Tadej Pogacar per il secondo giorno di fila. Questa volta in maglia gialla, quella che s'era messa addosso da ventiquattro ore.

 

AP Photo/Daniel Cole
       

L'ieri che si fa oggi. Un oggi diverso però, perché ben più ascensionale, perché materializzatosi in una salita che oltrepassava, per lunghezza altitudine e pendenza, il confine collinare, perché, soprattutto, ha proposto, in stato embrionale, quello che potrebbe essere il fil rouge di questo Tour de France, ossia lo scontrarsi tra i piani di dominio di Tadej Pogacar, per ora perfettamente rispettati, e la voglia matta di scombussolare ciò che sembra immodificabile di Jonas Vingegaard.

 

Pogacar ha due anni in meno di Vingegaard e due Tour vinti in più (2-0), eppure il danese sembra più giovane di almeno un lustro. Per lineamenti, soprattutto per sguardo. Quello un po' ingenuo di chi sa che basta volere intensamente un qualcosa per renderlo reale. Non ha il ceffo consapevole di Primoz Roglic che chiarisce a tutti che di più al momento, e forse non solo al momento, non si può fare. Neppure gli occhi stralunati di David Gaudu ed Enric Mas mentre guardavano il distacco e che quasi sembravano dire che non era andata neppure male.

   

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Vingegaard non è come loro, mentre osservava la maglia gialla, qualche minuto dopo aver tagliato il traguardo, sembrava dirgli: vediamo se te la porti a Parigi, sono mica sicuro che tu possa farcela. Non con cattiveria, quasi sognando, ma in modo determinato e lucidissimo. E questo nonostante quanto accaduto nelle ultime decine di metri della salita, nonostante il recupero, con sorpasso, di Pogacar che sembrava improbabile, per non dire impossibile, sino a qualche decina di metri prima. Sembrava tagliata fuori la maglia gialla per la vittoria finale. Aveva perso, e dato il pregresso verrebbe da scrivere “addirittura perso”, qualche metro. Un'inezia, certo, figlia, probabilmente, di una cambiata sbagliata, di un rapporto troppo duro o troppo leggero.

 

La Planche des Belles Filles era stata un'attesa, veloce sicuramente, dell'ingresso nella Super Planche des Belles Filles. La Super si è trasformata in un allungo di gruppo, in un allungo di Vingegaard, in un riallungo, finale e definitivo, di Pogacar. Definitivo per oggi, in attesa che diventi definitivo per davvero.

 

Tra l'oggi e il domani, o più probabilmente il dopodomani o quando arriverà, ci sarà anche la volontà di questo imberbe danese che non ha la minima voglia di passare per rivale da romanzetto, quello un po' finto e, alla lunga, fin troppo accomodante con il protagonista designato. C'ha il fare da antagonista vero, uno che si preannuncia essere più duro da ammazzare di Bruce Willis in die hard. Sempre che la variabile Primoz Roglic, al netto dei capitomboli, non si metta di mezzo alla trama, già parecchio interessante, del romanzo giallo Tour.