(foto LaPresse)

dopo la 32° giornata

Ma quindi l'Inter ha già vinto il campionato? Calma!

Giuseppe Pastore

Nessun giallo degno di questo nome si è mai risolto a sei pagine dalla fine. Ecco perché tutto resta ancora aperto (anche per la Juventus)

E quindi, adesso l'Inter ha già vinto? Calma: l'eccesso di semplificazione è un errore che abbiamo già commesso troppe volte in questi mesi, in questa stagione. Va bene che l'elogio della complessità è un po' inflazionato, soprattutto per questioni geopolitiche un po' più delicate e stringenti di un campionato di calcio, ma nessun giallo degno di questo nome si è mai risolto a sei pagine dalla fine. C'è poi la possibilità che, nei meandri emotivi e tattici di questa serie A ultra-livellata, le pagine si trasformino in interi capitoli. Ricordate solo una cosa: al di là dei giocatori che vanno in campo, nessuno dei primi tre allenatori in classifica ha mai vinto uno scudetto. Tant'è che il sottoscritto – lo dico una volta sola e per oggi non lo ripeto più – non considera ancora tagliata fuori nemmeno la cara vecchia Juventus.

Di cosa può avere paura allora quest'Inter resuscitata in anticipo sulla Pasqua, con il vento a favore di un calendario in discesa (per quel che vale)? Ci sono validi motivi per sospettare che la partita contro il Verona potesse essere la più facile delle otto che le mancavano: non per il valore dell'Hellas (terzo attacco del campionato del tutto silenziato dal furore agonistico nel primo tempo), ma per altri due motivi. Il primo di ordine ovviamente psicologico, il lato più delicato di una volata tanto mozzafiato: Inter-Verona è stata facilitata dall'onda buona dell'impresa dello Juventus Stadium, i cui effetti tenderanno a svanire nel medio periodo, ma finché ci sono bisogna cavalcarli. Il secondo, più malizioso, è che Inter-Verona è stata probabilmente l'unica partita in cui Inzaghi non ha dovuto lambiccarsi se schierare o meno Lautaro Martinez, compatibile con Dzeko come l'acqua e l'olio. Del buon rientro di Correa se n'è giovato soprattutto il bosniaco, brillante come non si vedeva da mesi: per il resto Inzaghi non ha praticamente dovuto cambiare nient'altro (a parte Dimarco per il diffidato Bastoni, che tornerà titolare) e il rientro a pieno regime di Brozovic ha ridato smalto e sostanza al “vecchio” centrocampo titolare, a conferma che è la testa che muove tutto il resto, in questa parte di stagione più che mai.

 

Il decisivo Gran Premio della Montagna oltre il quale giace la Seconda Stella inizierà all'indomani di Pasquetta, con il return-match di coppa Italia contro il Milan che promette fuoco fiamme e rumore di catene e potrebbe imprimere la svolta definitiva alla stagione, com'era successo ai primi di febbraio. Poi a San Siro arriverà una Roma indecifrabile, in questo momento sempre in bilico tra la cottura e l'ennesimo slancio di nervi come contro la Salernitana: l'aritmetica la vuole ancora in corsa per il quarto posto (ma prima dovrà andare a Napoli), ma sembra più importarle la Conference League, come testimonia l'attesa spasmodica per l'arrivo del Bodo Glimt dipinto dalla propaganda mourinhista come se fosse l'impero del male. A quel punto, a ridosso del 25 aprile, sapremo.

La domenica si porta via le diverse delusioni di Milan e Napoli. Il Milan ha una tenuta difensiva impeccabile ma purtroppo non ha da settimane lo smalto offensivo di inizio stagione, per colpa di tante mediocrità individuali (Diaz, Saelemaekers, Messias) e dell'intermittenza adolescenziale di chi è stato scintillante in inverno (Leao). Il rovescio della medaglia di guidare un gruppo giovane e zampillante di entusiasmi è che al subentrare della depressione lo sconforto si fa più acuto, senza nemmeno la prospettiva di un obiettivo a rischio (nonostante la flessione, la Champions è ancora in cassaforte) a mettere addosso ai giocatori un po' di sana strizza. Per mesi Pioli è stato bravo a cavalcare l'entusiasmo e la strabiliante energia cinetica dei suoi uomini migliori, ma quando le energie diminuiscono e le partite diventano una questione di treni su cui salire al volo – insomma quando si vincono i campionati – sta dimostrando di non possedere la calma del cecchino alla Ancelotti né l'occhio della tigre alla Simeone – sono doti che non ha mai avuto. Le lamentele a caldo sul non-gioco del Torino e sui pochi minuti di recupero sanno tanto di “rant” fine a sé stesso, come quei “giovani” che abbaiano alla luna convinti di aver ragione a prescindere, non capacitandosi che i “vecchi” non si facciano da parte.

La delusione del Napoli è invece, per una volta, di ordine tattico e coincide con l'ennesima grande partita della Fiorentina di Italiano, un allenatore dal curriculum strepitoso per come sa coniugare qualità e risultati. Al momento non ha mai sbagliato una stagione, e in una piazza sportivamente torrida come Firenze (altro che Sassuolo, con tutto il rispetto), accettata nonostante l'eredità di due stagioni di macerie e confusione, ha dato un senso al fumoso progetto di Commisso (che a inizio stagione aveva affidato la squadra a Gattuso, a proposito di confusione). A novembre ha battuto il Milan senza i due centrali titolari e ieri ha vinto da grande a Napoli senza il suo giocatore migliore, il regista Torreira; a gennaio gli han venduto il capocannoniere e non ha fatto un plissé; ha restituito dignità atletica e agonistica persino a giocatori da bassa classifica come Saponara, Igor e Duncan. L'intera rosa sembra pendere dalle sue labbra.

 

Dallo scintillio della Fiorentina si è fatto accecare Spalletti, nuovamente surclassato in casa come già gli era capitato a inizio marzo contro il Milan. In un campionato che sta aspettando chiunque e sta perdonando almeno sei o sette passi falsi, è doloroso vedere i punti che il Napoli ha sperperato in casa, di fronte a un pubblico sempre più sconcertato dell'altalenanza sentimentale di una squadra che ha tutto – talento, fisico, varietà, esperienza, cazzimma – ma lo smarrisce regolarmente circa una volta al mese. Se ne rende conto benissimo anche Spalletti, via via sempre più roboante al sabato e sempre più affranto alla domenica pomeriggio: è la storia della sua carriera, una carriera magnifica e innaturalmente lunga (ha debuttato in serie A nel 1997) per un tecnico che non ha mai fatto della serenità d'animo il suo tratto distintivo. Questo finale di stagione sta dilaniando anche lui, che pure avrebbe tutto il diritto di dirsi soddisfatto del piazzamento Champions quasi in tasca. Ma la febbre dell'oro acceca tutti e questo scudetto somiglia ormai all'idolo della fertilità concupito da Indiana Jones nella prima scena dei Predatori dell'Arca Perduta. Ti sembra a portata di mano, ma prima di afferrarlo hai il dovere di chiederti quali trappole ti aspettino nella giungla peruviana in cui hai avuto il coraggio di avventurarti. C'è rischio di restarci secchi.

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