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Italia-Macedonia del nord: gli Azzurri sono fuori dal Mondiale 2022 in Qatar

Giuseppe Pastore

La Nazionale va ingenuamente alla deriva, cullandosi a oltranza, squadra e ct, sulla filastrocca dell'andrà tutto bene. E al 92mo il macedone Trajkovski segna l'1 - 0. Per non sgualcire del tutto il ricordo dello splendido triennio 2019-2021, ora Mancini non ha che una strada: le dimissioni

Campioni del fondo. L'Italia di Mancini toglie dall'imbarazzo tutti quelli che in questi mesi si erano ingegnati a fabbricare alibi plausibili e variopinti per una nostra eventuale eliminazione, dal bislacco regolamento dei play-off alla Lega Serie A che non ha concesso una settimana di lavoro supplementare agli Eroi di Wembley (non risulta del resto che macedoni e portoghesi siano in clausura da un mese). È la notte più nera della nostra storia calcistica e schiarisce persino l'impresa al contrario del 2017: perché quelle erano pur sempre Spagna e Svezia, non Svizzera e Macedonia del nord.

È l'ideale punto d'approdo di una stagione vissuta in retromarcia, trascorsa a guardarci sempre indietro, ad accarezzarci l'anima con le parate di Donnarumma, gli “It's coming to Rome”, Chiellini che prende per la collottola Saka, senza contare che il calcio d'oggi viaggia velocissimo e ciò che sembra scritto nella pietra nel primo tempo non vale già più nel secondo, figuriamoci nove mesi dopo.

Il primo responsabile, nelle parole e poi nelle disastrose scelte di Palermo, si chiama Roberto Mancini: proprio lui, che aveva annunciato e poi praticato il “cambiamento” risollevandoci dalle mestizie tavecchio-venturiane, è rimasto pietrificato dalla Medusa della propria gloria e da settembre non è più riuscito a muovere un muscolo né a farlo muovere alla sua squadra, a cominciare dal cuore. Aveva proprio ragione Kipling: il Trionfo e il Disastro sono due impostori che vanno trattati allo stesso modo.

  

Antefatto

Ci sarebbe da copiare e incollare le riflessioni scritte a caldo dopo l'orribile 0-0 di Belfast, perché da allora non è cambiato niente. Ogni scelta è stata fatta in virtù dell'enorme senso di gratitudine per l'impresa di Wembley: niente di nuovo sotto il sole, perché a Spagna 1982 seguirono una mancata qualificazione a Euro 1984 e un mediocre Mundial 1986, mentre il Lippi-bis del 2010 si risolse con il bagno di sangue in Sudafrica. Appartiene a questo difetto di fabbricazione del calcio italiano insistere su un Barella che arranca da Natale e nel 2022 ha tirato in porta solo due volte in tre mesi, insistere su un Immobile che con tutte le evidenze soffre tremendamente questa maglia e questo sistema di gioco, perseverare diabolicamente su un Insigne che ha smesso – anzitutto di testa – di essere un giocatore di alto livello da luglio, ignorare i tenui segnali di novità proposti dal campionato, persino rimandare sul dischetto un confuso Jorginho nel famigerato rigore che l'arbitro ci aveva gentilmente regalato al 90' di Italia-Svizzera. Tutto questo circolo narcisista e auto-assolutorio è stato colpevolmente alimentato da un sistema mediatico che si rivolge ai giocatori per nome o addirittura per nomignolo (“Gigio”, “Mancio”...), spia di una strisciante de-responsabilizzazione che porta a non voler fare troppe domande nemmeno dopo i quattro (!) pareggi contro Bulgaria, Svizzera e Irlanda del Nord: avessimo vinto solo una di queste partite, avremmo vinto il girone. E invece anche lì, si è continuato a non parlare di calcio e a voltare le spalle al presente: continui appelli allo “spirito di Wembley” e all'ottimismo che vedrete, sarebbe tornato con uno schiocco di dita, ridicole foglie di fico su una squadra senza carattere. L'ingresso al 90' di Chiellini, allucinante come la testa di cavallo urlante in Guernica di Picasso, si può spiegare razionalmente solo così.

  

Italia-Macedonia del nord

Qual è la squadra che esprime il calcio più brillante schierando in attacco il maggior numero di italiani? Il Sassuolo. E questo è il problema: il Sassuolo – privo di pubblico, di pressioni, di ambizioni, di obiettivi sportivi – è quanto di più lontano dal calcio “vero”, ancora di più dal calcio per Nazionali che vive logiche tutte sue, irriproducibili nel tran tran di una mezza classifica: lo prova per esempio l'exploit di Gareth Bale, che dopo un anno di villeggiatura ha mandato il Galles in finale con una doppietta. La dimostrazione pratica di queste righe sta nel sinistro molle, centrale e rasoterra del buon Mimmo Berardi (27 anni) in bocca al mediocre portiere macedone alla mezz'ora del primo tempo, come se in quel momento si fosse reso conto del peso schiacciante che comporta scrivere il proprio cognome su una storia molto più importante di quella del giocattolino Sassuolo – impressione ribadita anche nelle occasioni fallite nella ripresa. E dire che “Berardi senza gloria” è risultato il migliore dei tre davanti, visto che almeno lui ci ha provato a tirare, mentre Immobile (32 anni) e Insigne (30 anni) si sono commentati da soli. Vista l'insostenibile leggerezza del Trio, poteva servire un'altra punta di peso in luogo del tenero Giacomino Raspadori? Poteva servire un jolly alla Zaniolo, mandato in tribuna per motivi imprecisati? Potevano servire prima Tonali o Pellegrini o qualunque giocatore tentasse di forzare il bunker macedone con un tiro da fuori? Poteva servire pensare a qualcosa di nuovo per sfruttare almeno uno dei sedici calci d'angolo, noi che nella finale di Wembley avevamo pareggiato proprio su corner? Poteva servire, più in generale, preparare la non impossibile Italia-Macedonia guardando avanti, invece di limitarci a ripetere che siamo i campioni d'Europa? Anche perché quest'elementare constatazione, che rivolta a un gruppo di leader stile 2006 avrebbe risvegliato orgoglio e sani sentimenti sportivi al momento ideale, su questo gruppo ha avuto l'effetto opposto: il pensiero costante di avere tutto da perdere è stato il piombo che ha appesantito ogni giocata e rallentato ogni scelta. Se volete farvi del male riguardate l'azione fatale, una stilettata in stile Pak Doo-Ik che forse sarebbe stata parabile solo dal miglior Donnarumma (quindi non quello di quest'anno): dopo il controllo di petto di Trajkovski, Jorginho perde il passo alzando puerilmente il braccio per protestare, sperando nel tocco di braccio e concedendo al numero 9 macedone quel metro di spazio che gli servirà per caricare e sparare nell'angolino. E questo è il giocatore che è arrivato secondo al Pallone d'Oro: dimostrazione bruciante che il calcio di oggi non si volta indietro e non si ferma ad aspettare i grandi nomi che si sono attardati a scattare selfie e firmare autografi.

 

Limitatamente a questa seconda catastrofe sportiva, il presidente federale Gravina ha assai meno colpe di Tavecchio, che ebbe la grave responsabilità di non intervenire su un gruppo balcanizzato e un ct ormai esautorato. Qui eravamo al più limpido e nobile del “tutti per Mancio, Mancio per tutti”. Per non sgualcire del tutto il ricordo dello splendido triennio 2019-2021, ora il ct non ha che una strada davanti: le dimissioni. È questione di onestà intellettuale. Le occasioni non mancheranno, anche se l'enorme tempo libero che aspetta la maglia azzurra fino a Natale porterà prima o poi il dibattito a virare sui Grandi Temi, dai club che odiano la Nazionale su su fino alla scomparsa dell'educazione fisica e dei bambini nei cortili – senza dimenticare ovviamente la Maledetta Sfortuna, la scusa più amata dagli italiani. 67esima nel ranking FIFA, priva per squalifica del suo miglior giocatore, il sospetto è che una Macedonia tanto mediocre andasse sconfitta anche bendata. Il brutto è che non siamo nemmeno stati presuntuosi, come ci si potrebbe aspettare dai campioni d'Europa in carica. Non c'è stato nemmeno uno scatto d'ira, un calcione rigeneratore, uno sguardo paonazzo stile De Rossi (“dovemo vincé, no pareggià!”) in Italia-Svezia. Tutt'altro: siamo andati dolcemente alla deriva come ingenui bambinoni, cullandoci a oltranza, squadra e ct, sulla filastrocca dell'andrà tutto bene. Il lupo è arrivato, inesorabile, al 92'. Noi credevamo.

 

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