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La metamorfosi dell'Italia di Mancini si è completata

Giuseppe Pastore

Gli Azzurri pareggiano 0-0 contro l'Irlanda del Nord e ora per andare al Mondiale servirà vincere ai play-off di fine marzo. Le ragioni di una mezza figuraccia

L'inferno sono gli altri!, ammoniva quel noiosone di Jean-Paul Sartre. Il quale, se non andiamo errati, diceva anche: il calcio è una metafora della vita. La Nazionale degli ultimi due mesi ribalta genialmente il concetto: l'inferno siamo noi, e nell'inferno bruceremo ogni volta che penseremo al play-off di fine marzo i cui contorni al momento sono ancora avvolti nella nebbia. La testa, la testa, la testa: è un periodo storico – non solo calcistico – in cui la mente combina miracoli e disastri spesso anche nel giro di poche settimane, perché la metamorfosi da Nazionale imbattuta per 37 partite a squadretta incapace di creare pericoli all'Irlanda del Nord è spettacolare e travalica anche la cronaca nazionale.

La testa, la testa, la testa, il grande problema richiamato ripetutamente da Roberto Mancini cercando di non scomporsi in pubblico, usando solo la carota e mai il bastone per rimettere in carreggiata un gruppo che invece è andato in tilt nel momento in cui lo sport – questo giudice maledetto, che non ha rispetto per il passato – lo ha chiamato a confermare i clamorosi risultati dell'estate. Siamo passati senza step intermedi dal non aver nulla da perdere, mettendoci così da soli le ali a piedi nel meraviglioso Europeo, a esporci a una plateale figuraccia contro Svizzera e Irlanda del Nord e chissà chi altro, nella torrida primavera 2022.

La metamorfosi della Nazionale, da imbattuta a squadra noiosetta

Una vecchia regola del calcio dice che, se tutto va male a cominciare dal portiere che ancora una volta si è incartato al 90' in circostanze inspiegabili, la responsabilità maggiore va addossata al commissario tecnico. Del resto i meriti di Mancini in estate erano stati lampanti e largamente celebrati: si prenda anche lui le sue responsabilità, invece di tenere ostinatamente il punto, attaccarsi agli episodi (con velato j'accuse verso il povero Jorginho, che pure venerdì sera non si è presentato sul dischetto da solo) e ribadire: “Ci andiamo al Mondiale, e magari lo vinciamo anche” con testardaggine tardo-venturiana. Il paragone con il fantasma di Ventura, vero mostro in prima pagina della storia recente del nostro calcio, purtroppo viene spontaneo e non solo per le circostanze dell'inabissamento, uno 0-0 in un triste lunedì sera di metà novembre. Ma quella era una Nazionale sbrindellata e litigiosa, che aveva ampiamente esautorato un ct rimasto in sella solo grazie alla debolezza dell'intera Federazione: questa è un'Italia più compatta che respira come un corpo solo al ritmo del proprio entusiasmo e della propria angoscia. E forse è proprio questo uno dei problemi: escluso Chiellini, in campo c'è troppa poca leadership per discutere le scelte, sia tattiche che psicologiche, che hanno portato la squadra a “battere in testa”. Piccolo ma illuminante esempio, la sequenza demenziale di corner e calci piazzati sprecati con soluzioni arzigogolate: è vero che così era arrivato l'unico gol contro la Svizzera, ma forse una squadra avvitata nell'agitazione avrebbe bisogno di ripartire dalle cose semplici.

Dovremmo prendercela con i soliti sospetti, per esempio Insigne che, invocato quattro anni fa a furor di popolo contro la Svezia, sostanzialmente non è sceso in campo in nessuna delle due partite decisive di novembre. O con un Barella sfinito anche per la troppa generosità che mette in ogni rincorsa, in ogni scatto, in ogni gesto tecnico, aspetto un po' inquietante sia per sé stesso che per l'Inter che giustamente non ha alternative al suo livello. Anche questo è un difetto: la poca lucidità nel saper dosare le energie, il giocare sempre a mille oppure non esistere, l'essere brillanti solo se tutti i pianeti si allineano com'è successo in estate. O ancora – e qui torniamo a Mancini e al nutrito staff tecnico di cui è garante – alla ripetitività del copione tattico (limite affiorato anche all'Europeo, dove a veder bene i cambi erano sempre gli stessi), all'assenza sostanziale di piani B, all'insistenza con i lanci lunghi nel vuoto come se questa Irlanda del Nord-Italia non la si fosse nemmeno preparata. L'Italia ha vinto nei 90 minuti solo tre delle ultime undici partite. E da settembre (“per colpa di Jorginho!”, direbbe il ct) ha segnato un solo gol nei cinque secondi tempi di qualificazioni Mondiali, il tiro-cross di Di Lorenzo che è valso il 5-0 contro la Lituania. Vuol dire che le partite non sono mai cambiate in meglio, che poi è quel che ci si aspetta da una Nazionale che non ha fuoriclasse ma tanti buoni giocatori allo stesso livello. Com'è che quando entrano a partita in corso non rendono mai? Com'è che dopo due anni non riusciamo a considerare un sistema di gioco alternativo che valorizzi qualche individualità un po' bistrattata, per esempio Immobile che in Nazionale manda sempre suo cugino? Il giocare bene che ci ha portato sul tetto d'Europa si è trasformato nella nostra condanna: abbiamo sviluppato un tale attaccamento al nuovo “stile italiano” che ci siamo dimenticati di tutto il resto, soprattutto quell'arte di arrangiarsi, quella capacità geniale di improvvisare che fa parte della storia del calcio per Nazionali e ha acquisito ancora più importanza con l'introduzione dei cinque cambi.

Le ragioni di una mezza figuraccia

Ora, tornando sul discorso mentale, il rischio è che fino a marzo il discorso calcistico torni ad essere una valle di slogan motivazionali com'era già capitato nel 2017, con esiti nefasti: “Dobbiamo ritrovare la spensieratezza e la cattiveria che avevamo all'Europeo” ha già dichiarato Bonucci, con la sicumera di chi crede che si possa fare in uno schiocco di dita. Può succedere a lui, probabilmente, abituato a ben altre tensioni: ma non così facilmente agli Insigne, i Berardi, i Belotti, i Barella, i Jorginho che in azzurro hanno smarrito distanze ed entusiasmi, come se la Nazionale fosse tornata a essere un incubo e non un'occasione di divertimento com'era stato nel triennio 2019-2021, fino a Wembley.

Bisognerà respirare, farsi una bella dormita per poi scoprire che la discutibile formula dei play-off porta con sé almeno due circostanze favorevoli. Intanto, il prenderci quattro mesi di pausa e recuperare i tanti infortunati di questa sciagurata settimana, sperando che non se ne aggiungano altri. Poi ci può aiutare l'assenza di scontri diretti andata/ritorno in cui morire di calcoli e prudenza come contro la Svezia: il dolce ricordo delle gare secche potrebbe servire a ricreare “il clima di Wembley”, e vista la nostra oggettiva difficoltà a fare gol potrebbe essere un affare anche l'extrema ratio di portare la partita ai rigori, contando sullo specialista Donnarumma. Nella speranza di voltare definitivamente pagina rispetto a ciò che è successo in estate: il calcio di oggi – oseremmo dire il mondo – non perde più tempo a voltarsi indietro, e la riconoscenza incondizionata di un ct verso i suoi “eroi”, parente stretta di quelle di Bearzot e di Lippi che portarono ai naufragi dell'Europeo 1984 e di Sudafrica 2010, suona sempre più stantia. Forse, con il trionfo Europeo, Roberto Mancini ha pensato inconsciamente di “essere a posto così”, indiscusso e indiscutibile padre della patria pallonara. A quasi 57 anni, dopo una carriera di successi, è un pensiero umano. Ora la realtà si è incaricata di bussare di nuovo alla porta.