La cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Pechino 2008 (foto Ap)

Il foglio sportivo

Quei Giochi troppo politici

Alberto Chiumento

Ecco perché il boicottaggio diplomatico di Pechino non avrà effetti sulla manifestazione olimpica invernale

"Insieme per un futuro condiviso.” Non tanto insieme verrebbe da dire dato che il governo statunitense ha azzoppato il motto olimpico, scegliendo il boicottaggio diplomatico delle Olimpiadi di Pechino 2022 (dal 4 al 20 febbraio). Gli Stati Uniti non manderanno alcun rappresentante diplomatico ufficiale, mentre tutti gli atleti e gli allenatori parteciperanno all’evento. Bloccare gli atleti sarebbe stato troppo. Anche perché sciatori, slittini e pattinatori sono oggettivamente poco coinvolti rispetto “al genocidio e ai crimini contro l’umanità nello Xinjiang (la regione del nord-ovest cinese in cui vive la minoranza musulmana uigura, n.d.a.) e ad altre violazioni dei diritti umani”, che sono i motivi della scelta dell’amministrazione Biden, come affermato dalla portavoce Psaki.

Pechino sarà la prima città in assoluto a ospitare sia le Olimpiadi estive sia quelle invernali. Un importante traguardo raggiunto in soli 14 anni. Questa edizione però sarà molto diversa. Nel 2008, erano presenti decine di capi di stato alla cerimonia di apertura. Per la Cina i Giochi olimpici furono l’opportunità per aumentare il proprio rango internazionale e la piattaforma d’ingresso nell’elitè mondiale dello sport. Per la prima volta la Cina superò gli Stati Uniti per numero di medaglie d’oro (51 contro 36). L’edizione 2022 potrebbe essere quella dell’affermazione cinese ma la vicenda della tennista Peng Shuai e la mancanza dei corpi diplomatici canadesi, australiani e del Regno Unito, che hanno seguito gli americani, hanno mutato le attese politiche.

“In realtà, non è nemmeno un boicottaggio” dice al Foglio Sportivo Nicola Sbetti, professore di storia internazionale e di storia dello sport all’Università di Bologna. “Non esiste alcuna regola che imponga la presenza di una rappresentanza politica o diplomatica alle Olimpiadi. Presenziare è un atto formale di cortesia. Tuttavia, l’elevata visibilità garantita dallo sport, e in modo ancora maggiore dalle Olimpiadi, fa si che perfino rifiutarsi di andare solamente alla cerimonia di apertura diventi un messaggio politico. Mi sembra comunque un piccolo sgarbo alla Cina, più rivolto all’opinione pubblica statunitense che alla politica estera. Paradossalmente, durante Pechino 2008 la questione dei diritti umani, legati alla vicenda del Tibet, era molto più sentita e discussa dalla società civile. Il percorso della torcia olimpica incontrò moltissime proteste.” La Cina, tramite il portavoce del ministero degli Esteri, ha prontamente risposto dicendo che “le Olimpiadi non sono il luogo per prese di posizione politica o di manipolazione.” Ma si tratta di un’affermazione vuota di contenuto: usata spesso dai paesi organizzatori per difendere i propri interessi e respingere critiche o proteste, pur sapendo che non è vera. La stessa scelta di candidarsi per un grosso evento come le Olimpiadi descrive un’intenzione politica o commerciale. Anche la storia dei Giochi olimpici mostra che la divisione tra sport e politica è irrealizzabile. 

Nel 1956, in seguito all’occupazione del canale di Suez da parte di Israele, Regno Unito e Francia, l’Egitto chiese al Comitato olimpico internazionale (Cio) di escludere i tre paesi aggressori. La richiesta fu respinta e in segno di solidarietà verso l’Egitto Libano e Iraq boicottarono le Olimpiadi di Melbourne che si tennero meno di un mese dopo. Alla stessa edizione anche Paesi Bassi, Spagna (all’epoca guidata da Franco) e la Svizzera – sì, proprio la Svizzera – scelsero di non partecipare per solidarietà nei confronti dell’Ungheria, la cui rivolta antisovietica fu repressa duramente dall’Urss. L’assenza della Svizzera era particolarmente notevole, essendo la nazione in cui ha sede il Cio. Percependola come una sconfitta, il Cio avviò un intenso lavoro di convincimento diplomatico tramite il presidente Brundage. Solo che il tempo non bastò: quando gli svizzeri decisero di partire non c’erano più aerei disponibili e solo una decina di atleti elvetici poté gareggiare in Australia.

Prima del boicottaggio americano a Mosca 1980, deciso da Carter per protestare contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan, e della successiva assenza del “blocco sovietico” a Los Angeles 1984, fu l’edizione di Montréal 1976 ad avviare alla stagione dei grossi boicottaggi sportivi. 27 paesi africani decisero di non parteciparvi perché il Cio rifiutò di escludere dai Giochi la Nuova Zelanda, la cui nazionale di rugby aveva ripreso a giocare con la squadra sudafricana, simbolo dell’apartheid. Il Cio fu sorpreso dalla richiesta: in Nuova Zelanda non c’era apartheid, il Sudafrica era già escluso dalle Olimpiadi e – soprattutto – il rugby non era sport olimpico. La scelta dei paesi africani, che avevano già minacciato quattro anni prima, voleva ottenere maggior riconoscimento e rappresentanza nel Cio. 

Nonostante negli ultimi anni per il Comitato olimpico internazionale sia sempre più complicato difendere la propria vitale apoliticità, la scelta statunitense non mette in pericolo l’esistenza del Comitato. Gli anni dei boicottaggi sportivi sono stati ben più tormentati”, commenta Sbetti. Inoltre, “attualmente il problema reale del Cio è il Covid-19: dover rimandare le Olimpiadi, vivere mesi di incertezza e organizzare eventi senza pubblico, come nel caso di Tokyo, ha causato danni economici pesanti.” A Pechino ci saranno spettatori provenienti solo dalla Cina continentale. 

Rispondendo alla notizia del boicottaggio diplomatico, il tentativo cinese di mantenere staccato lo sport dalla politica è in contraddizione con il suo passato (come con quello di moltissimi altri paesi occidentali). Nel 1963, la Cina partecipò e vinse il medagliere dei Ganefo, i Giochi delle Nuove Forze Emergenti, che comprendevano principalmente le nazioni emergenti di stampo socialista. Organizzata dall’Indonesia, la manifestazione era in aperta concorrenza con il Cio. Rivendicando il legame tra sport e politica,  accusava di ipocrisia il Cio, che sull’apoliticità dello sport si basa tutt’ora. L’Italia partecipò, ma con pochi atleti, tutti legati ad ambiti politici di sinistra, e senza il riconoscimento ufficiale nazionale, che sarebbe costato all’Italia l’espulsione del Cio.

Anche la disputa politica con Taiwan è stata spesso al centro del dibattito olimpico. Fino al 1979 l’unico Comitato olimpico nazionale cinese riconosciuto dal Cio era quello di Taiwan. Quando la Cina, con l’arrivo di Deng Xiaoping, venne ammessa al Cio ottenne che il Comitato olimpico di Taiwan cambiasse inno e nome, trasformandosi in Chinese Taipei. Quattro anni prima la richiesta cinese di ammissione prevedeva invece la contemporanea esclusione di Taiwan dal Cio. Il Cio, con l’abile pragmatismo che esercita dal 1894, si è limitato a dire che le Olimpiadi non devono essere strumentalizzate. Per l’Italia condividere la posizione americana è più complesso: a Pechino è previsto che la delegazione italiana riceva durante la cerimonia di chiusura la bandiera olimpica poiché le Olimpiadi 2026 saranno in Italia. Essere assenti in diretta planetaria non sarebbe un buon modo per presentare al mondo Milano e Cortina.

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