Una partita al campo del Quadraro (foto: Polisportiva Atletico diritti)

Il Foglio sportivo

La partita infinita dell'Atletico diritti

Francesco Gottardi

Rifugiati, detenuti e studenti “insieme per un laboratorio di integrazione attraverso lo sport”. Succede a Roma: "E dopo sette anni non ci vogliamo fermare"

A volte una chiacchiera in spogliatoio può cambiare il futuro. “Mi era scaduto il permesso di soggiorno, non sapevo come fare”, ricorda Felicien: “Appena ne parlai con ragazzi e dirigenti mi aiutarono a ottenere tutti i documenti necessari”. Altre permette di aggrapparsi alla vita. “Il carcere è un mondo a sé”, assicura Luisa: “Se non metti l’anima in qualcosa perdi la testa. Quando mi dissero quale giorno sarei uscita, reagii con una punta di dispiacere: avrei saltato il torneo di calcio a 5 con le mie compagne”.

 

Il primo ha 24 anni e nel 2015 lasciò la Costa d’Avorio per intraprendere la più disperata delle vie verso l’Italia: “La Libia, un barcone, la speranza di vedere Lampedusa”. Lei ne ha 53, ora è una donna libera, ma il suo cinquantesimo compleanno lo passò a Rebibbia, “con la squadra che mi fece il regalo e riuscì a farmi piangere anche lì dentro”. La loro storia in comune si chiama Atletico diritti. Polisportiva dilettantistica romana e ibrido sociale sul territorio: “Siamo nati nel 2014 dalla convergenza di tre realtà”, racconta al Foglio sportivo la presidente Susanna Marietti. “Antigone, l’associazione di cui sono coordinatrice nazionale e che da 30 anni si batte per la garanzia della giustizia penale”, monitorando le condizioni dei penitenziari, “e Progetto diritti, che offre assistenza legale gratuita alle comunità di immigrati. Insieme abbiamo deciso di creare un laboratorio di integrazione attraverso lo sport. Trovando subito il sostegno dell’Università Roma Tre”.

Tutto partì dal pallone: sul campo del Quadraro, all’ombra dell’acquedotto Claudio, “studenti, richiedenti asilo e detenuti con permessi speciali per giocare con noi. Presto è seguita una squadra di cricket a Fondi, con ragazzi indiani e bengalesi ribellatisi al caporalato agricolo del Pontino. Quindi il basket in Serie D e il calcio a 5 femminile in carcere, dove quest’anno abbiamo lanciato anche il tennistavolo maschile. E tranne le ragazze, perché il campo dell’istituto non è regolamentare, tutte le nostre formazioni partecipano a campionati federali. Siamo un piccolo progetto no profit”, l’etichetta ‘Made in jail’ sulle maglie da allenamento, “ma serio e competitivo”.

 

Lo striscione elaborato dal club a partire dal disegno di Zerocalcare (foto: Polisportiva Atletico diritti)

E mediatico, si capisce: “Documentari, servizi. Siamo stati premiati dal presidente del Coni Malagò, Zerocalcare ci ha dedicato una vignetta, la nostra capitana è andata perfino in udienza dal Papa”. Ma dopo sette anni, come si misura il successo dell’iniziativa? “Penso al calcio”, continua Marietti: “Nemmeno quando perdevamo 12-0 siamo mai stati la squadra degli sfortunati, con cui empatizzare a prescindere. Fra noi c’è solidarietà vera, il frutto di retroterra così diversi eppure ben mescolati: l’Atletico diritti è una famiglia e la rampa di lancio per fare conoscenze, trovare un lavoro. Soprattutto per chi è ai margini della società”. Anche se le cose sono un po’ cambiate. “Nel tempo ho capito che non è facile tenere insieme l’agonismo sportivo con lo spirito sociale. Una volta facevamo giocare tutti, ora che siamo in Seconda categoria – il penultimo livello del calcio italiano – è l’allenatore a scegliere chi va in campo. Ed è giusto così: combattiamo le nostre battaglie”, dallo ius soli al caso Regeni, “però vogliamo vincere come gli altri. Qualcuno per questo se n’è andato. O l’abbiamo mancato: durante la pandemia è molto più complicato fare scouting nei centri d’accoglienza”. Struttura e organizzazione al prezzo di un po’ di candore: “Noi ci abbiamo messo il cuore, ma Atletico diritti ormai è una realtà che cresce e va avanti da sola”.

Una partita dopo l’altra. “Prima di vestire questa maglia ero disoccupato”, dice Felicien. “Oggi invece sono operatore sociale e mediatore culturale: i punti di riferimento li ho trovati qui”, sognando Sergio Ramos e finendo per fare l’attaccante. “Mi hanno cercato altre squadre. Ma non potevo mollare i miei amici”. A Trastevere, dove vive Luisa, la musica è la stessa. “Tutto lo schifo che si racconta sulla vita in carcere è vero. Violenze, soprusi. Gli unici ad avermi trattato con dignità sono stati Antigone e Atletico diritti. Il pallone l’unica gioia. Ora voglio aiutarli anche da fuori”. Proprio questo pomeriggio inizia il nuovo campionato femminile: l’Università europea di Roma contro le ragazze di Rebibbia. “Per un attimo, si dimenticheranno di dove si trovano”.

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