AP Photo/Wali Sabawoon

Il Foglio sportivo

“Così possiamo salvare altre sportive afghane”

Mauro Berruto

I retroscena delle fughe da Kabul delle donne a cui è negata la possibilità di fare sport. Come aiutarle

Lo sport può mettere a rischio la vita, lo sport può salvare la vita. La catastrofe umanitaria in corso in Afghanistan ci mette di fronte a questa doppia evidenza, a queste due facce di una stessa medaglia. Sembra incredibile, eppure in un pezzo di mondo il diritto allo sport non solo è oggi negato, ma comporta il rischio di essere uccisi. Anzi, uccise. Da cinque settimane stiamo sentendo raccontare, in un’altalena di emozioni, drammatiche storie di donne afghane “colpevoli” per aver praticato uno sport. Calciatrici, cicliste o pallavoliste che nel giro di pochi giorni sono state costrette a lasciare palloni e biciclette, bruciare i propri indumenti sportivi e le tracce delle loro passioni e nascondersi, come farebbe un criminale. Luci spente, giornali appesi alle finestre, WhatsApp come unico contatto con il mondo.

 

Ma è proprio grazie a WhatsApp e grazie allo sport che si sono salvate. Nella loro frenetica ricerca di aiuto sono state triangolazioni affidate alla rete a dare loro una speranza, informazioni e una via d’uscita dall’inferno. Nei giorni drammatici delle ultime evacuazioni dall’aeroporto di Kabul, possibili grazie al lavoro infaticabile dei nostri militari del Tuscania, il mindset sportivo di queste ragazze ha permesso loro prima di crederci, poi di resistere, infine di riuscirci. Oggi, tuttavia, il livello di difficoltà è cresciuto a dismisura. Le sportive che ce l’hanno fatta lo hanno fatto in due modi molto diversi: con i voli militari, cosa difficilissima, ma possibile fino al 26 agosto, giorno del tragico attentato ad Abbey Gate; dopo quel giorno solo attraverso esfiltrazioni via terra, superando in qualche modo e in virtù di uno straordinario coraggio individuale, i confini con un paese limitrofo.

Due modi diversi, in un pendolo fra terrore, speranza, rassegnazione, felicità. Se prima del 26 agosto l’unica via passava dall’aeroporto di Kabul, preso d’assalto nella speranza di passare quel varco, finire sotto la protezione dei nostri soldati, essere imbarcate su un volo militare e arrivare in Italia, oggi l’unico modo è nascondersi per settimane intere, mettersi in cammino verso l’Iran, l’Uzbekistan o il Pakistan e tentare di passare illegalmente il confine per poi sperare, senza alcuna certezza, di poter accedere a un visto che permetta di salire su un volo civile. Il vero problema è che questo secondo modo oggi è mostruosamente difficile e il secondo problema è che oggi si sta spegnendo la luce. Si stanno spegnendo le luci della nostra attenzione, si stanno anestetizzando il nostro coinvolgimento e il nostro dolore per la situazione.

Esattamente ciò che desiderano i talebani. Mentre il tempo passa, quelle sportive che ce l’hanno fatta sono qui terrorizzate da quello che sta succedendo alle loro colleghe o ai loro famigliari rimasti laggiù, braccati, minacciati, torturati, uccisi. Non c’è gioia nei loro occhi, né desiderio di tornare in qualche modo ad allenarsi. Negli occhi e nelle parole di tutte loro c’è una domanda: “Perché non state facendo niente per loro?”. Già, perché? È difficile dare risposte, perché l’unica risposta sarebbe quella di dire: “Stiamo costruendo un metodo”. E l’unico metodo sensato, oggi, sarebbe quello di aprire dei corridori umanitari. Nulla si può fare per garantire la sicurezza dentro all’Afghanistan; molto (e rapidamente) si potrebbe fare per riuscire a presidiare confini che diventerebbero le uniche vie d’uscita da una situazione, se ce ne fosse stato ulteriore bisogno, ulteriormente esplicitata: il vice capo della commissione culturale dei talebani, Ahmadullah Wasiq, ha affermato che le donne, sotto il nuovo regime, non potranno fare sport: “Sarebbero troppo visibili e questo va contro il codice d’abbigliamento dell’Islam. Anche se questo provoca contestazioni, noi talebani non abbandoniamo i nostri valori”, ha detto a una televisione australiana. E in particolare: “Fare sport per una donna, non è un’attività necessaria”.

 

Vengono i brividi a leggere dichiarazioni che ci riportano nel buio della storia, vengono i brividi a pensare alle conseguenze drammatiche di questo divieto. Lo sport ha messo a rischio la vita di un gruppo di donne coraggiose, ma lo sport è stato lo strumento che ha permesso loro di salvarsi. È atroce, ma è stato così. Tuttavia ora non possiamo più perdere tempo e non possiamo voltarci dall’altra parte. Il regime talebano è destinato a essere sconfitto dalla storia, su questo non c’è dubbio e non per merito di quell’Occidente che ha clamorosamente fallito ed evidentemente perso una guerra combattuta negli ultimi vent’anni (l’età media delle sportive arrivate qui, ragazze che non hanno nessun ricordo dell’Afghanistan prima del 2001).

No, non sarà per merito dell’Occidente che il regime talebano imploderà. Sarà perché si stanno arrabbiando le donne. E quando le donne si arrabbiano le cose succedono.

Aprire i corridoi umanitari e sostenere questa rivoluzione interna capitanata dalle donne, sono le due cose che è possibile fare oggi, senza aspettare altro tempo. Ogni minuto concesso è un minuto di terrore in più. Ogni minuto concesso costa vite umane. Ogni minuto concesso è un minuto del quale la nostra coscienza chiederà conto.

Di più su questi argomenti: