AP Photo/Jose Luis Magana

La musica è finita in Afghanistan

Mario Leone

I canti aboliti dai talebani, per impedire ogni aspirazione alla nascita di un popolo vero

Avevano parlato di un governo pronto a dialogare, lontano dalle vendette e aperto ai diritti di tutti. Quelle dei talebani sono bugie al vento e i drammatici fatti di questi giorni dimostrano l’infondatezza delle loro dichiarazioni. Violenze, rastrellamenti, sono solo la punta dell’iceberg di un regime che con l’apertura, il dialogo non ha nulla a che vedere. A conferma di quanto appena detto le dichiarazioni di Zabihullah Mujahid portavoce dei talebani e candidato alla carica di ministro dell’Informazione e della Cultura del nuovo governo: “Nell’islam la musica è proibita”. Precedentemente il canto era permesso nella pratica religiosa ma vietato in altre forme perché “poteva incoraggiare pensieri impuri”. La questione è molto intricata e le storture dipendono dall’interpretazione di alcuni passi coranici che vengono utilizzati per giustificare determinati atteggiamenti.

 

Un aiuto a cogliere la portata del problema viene dagli articoli scritti da Karin van Nieuwkerk, docente di Antropologia alla Nijmegen University nel dipartimento di Lingue e Culture mediorientali. La studiosa pone subito in chiaro la questione: “Il rapporto tra musica e islam è complesso”. La liceità della musica non riguarda solo chi la fa ma anche chi l’ascolta. Esistono tante correnti di pensiero. Tra le più autorevoli quella di Chelebi, studioso musulmano del XVII secolo che pone come musica proibita quella degli strumenti musicali. Quella della voce umana è ammissibile a determinate condizioni. La pratica canora presenta molte eccezioni. Secondo l’etnomusicologo al Faruqui la dottrina religiosa “istituisce una gerarchia musicale e del canto distinguendole in forme proibite, sconsigliate, raccomandate ed encomiabili”. Al vertice abbiamo il canto religioso riferito al Corano e la cantillazione religiosa, ma sono ammessi canti per il culto domestico e comunitario. Un peso molto importante ha anche il contesto in cui la musica si svolge: un certo tipo di musica può essere accettata in una situazione e censurata in un altro.

In questo contesto “fiorisce” la posizione dei talebani. Il colpo di spugna annunciato poche ore fa è solo l’ultima iniziativa atta a abolire ogni forma d’arte ed espressiva. Ne sa qualcosa Ahmad Naser Sarmast fondatore a Kabul di un’orchestra di donne e nel 2014 coinvolto in un attentato progettato proprio dai talebani per ammazzarlo. Un eroe che con la bellezza ha strappato centinaia di giovani dal fondamentalismo religioso, costretto a vivere con una promessa di morte che pende sulla sua testa. Il motivo lo spiegava nel 2016 su queste colonne: “Non si avrà nessuna stabilità economica, sociale, senza investire nell’istruzione, nell’arte e nella cultura”. Ecco forse spiegato il perché di una censura così violenta della musica e del canto. I talebani non vogliono una stabilità economica e sociale, non vogliono che si formi un popolo. Capisci che c’è un popolo perché ci sono dei canti che lo rappresentano. Ammutolire il canto (e non solo) significa zittire l’espressione più intima di ogni uomo, che è un’espressione, naturale, di bene.

Prima dei talebani lo testimoniava Lenin: “Non conosco niente di più bello dell’‘Appassionata’ (Sonata n. 23 op. 57 di Beethoven, ndr) […] E’ una musica meravigliosa, ultraterrena. Ogni volta che ascolto queste note, penso con orgoglio e forse ingenuità infantile, che è meraviglioso ciò che l’uomo può realizzare. Ma non riesco ad ascoltare musica spesso, mi colpisce i nervi. Voglio dire amabili stupidaggini e accarezzare le teste delle persone che possono creare tanta bellezza in un sudicio inferno. Ma oggi non è il momento di accarezzare la testa delle persone; oggi le mani scendono per spaccare teschi, aprirli spietatamente”. Quello che vogliono fare i talebani.
 

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