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In Premier League

Se vuoi vedere Tottenham-Chelsea allo stadio devi mangiare vegano

Francesco Gottardi

Il derby di Londra vuole diventare la prima partita a impatto ambientale nullo. Peccato che i cibi vegan non hanno nulla a che fare con sostenibilità e km zero

Tempi duri per gli ultras di tutto il mondo. Ma ci sono restrizioni e restrizioni: se per l’obbligo di green pass risponde la scienza, imporre tofu e correlati a chi canta in curva sa di autogol ambientalista. Eppure sarà così, il prossimo 19 settembre in Premier League. A Londra, Tottenham-Chelsea è già stato lanciato come #GameZero: il primo di sempre a impatto ambientale nullo, per sensibilizzare l’opinione pubblica sui cambiamenti climatici. O almeno, questa è l’intenzione degli organizzatori – in primis gli Spurs, già nominati “club più green del calcio inglese” e in sinergia con Cop26, la conferenza dell’Onu sul riscaldamento globale che si terrà questo novembre a Glasgow.

 

Le iniziative

Per ridurre al minimo e compensare le emissioni di carbonio, i tifosi dovranno raggiungere lo stadio a piedi, in bici o con i mezzi pubblici – da sottolineare: in Inghilterra chi va alla partita in macchina è già in netta minoranza, solo il 23 per cento nel caso del Tottenham, “ma possiamo fare ancora meglio”, ha dichiarato il presidente Levy. Entrambe le squadre viaggeranno in bus alimentati a biocarburante, ottenuto dal riciclo di rifiuti alimentari. Inoltre i padroni di casa garantiranno acqua in cartoncino anziché le solite bottiglie di plastica.

Fin qui tutto benissimo, all’insegna del buonsenso. Poi il blackout: all’interno dell’impianto verrà servito esclusivamente cibo vegano. Che però, a priori, non implica in alcun modo sostenibilità e km zero.

 

Un falso mito

L’equazione “origine vegetale uguale dieta etica”, in termini di impatto ambientale, non tiene conto dei modelli di produzione. Un girotondo globale, prendendo tre classici delle ricette vegan: il boom della quinoa in Perù, il cui prezzo è aumentato del 500 per cento dal 2005 al 2014, ha stravolto il paesaggio andino e la coltivazione intensiva richiama fertilizzanti inquinanti, restringendo le antiche zone di pascolo di lama e alpaca. Per i narcos messicani invece, la coca ormai è quasi overrated: tutti puntano sull’avocado, ribattezzato ‘oro verde’ per la domanda alle stelle da parte dei mercati occidentali, e oggi al centro di una lotta senza quartiere. Ne è vittima il terreno quanto i contadini locali, perché per un chilo di questo frutto dalle notevoli proprietà antiossidanti servono circa 2.000 litri d’acqua: dieci volte in più che per la stessa quantità di pomodori, poco meno della metà che per un chilo di pollo – a cui basta però meno spazio. E che dire infine del tofu? L’icona del veganismo è un derivato della soia, le cui colture, dal Brasile al sudest asiatico, rosicchiano ettaro dopo ettaro le foreste tropicali di mezzo mondo: secondo Carbon trust, in base ai più diffusi metodi di produzione, l’impronta ecologica del tofu è due volte più pesante di quella del pollame.

Notare bene. Quanto sopra non va inteso come istigazione a prendere d’assalto macellerie e pescivendoli a scapito degli ortofrutta, né per sminuire i diritti degli animali e il dramma degli allevamenti intensivi. Ma la scelta etica, a sicuro impatto zero, è una sola: non mangiare. Per 90 minuti è pure fattibile. Ci avesse pensato prima, la Premier League.

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