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Addio alle armi

Maurizio Stefanini

Dalla creazione del kung fu a Luigi Busà. I campioni di karate a Tokyo 2020 raccolgono il testimone di una storia millenaria

“Nel 520 dopo Cristo, dalla città di Kanchipuram, vicino a Madras, in India, un monaco buddista iniziò un lungo viaggio verso est. Il suo nome era Bodhidharma. Il suo corpo era sgraziato e i tratti del suo volto gli conferivano un’espressione perennemente inferocita”. La storia la hanno raccontata in molti modi, ma forse è più suggestivo se la ripetiamo prendendo in prestito le parole di un famoso fumetto di Alfredo Castelli: Martin Mystère, il “detective dell’impossibile” della Bonelli. Tanto fu lungo quel viaggio, che continua ancora. Ovviamente, a 15 secoli di distanza il testimone di questa più che millenaria staffetta è stato passato a una quantità di persone. Una fu ad esempio Gichin Funakoshi: un maestro elementare nato a Okinawa nel 1868. Era un bravissimo calligrafo e anche un profondo conoscitore dei classici cinesi, per questo era appunto diventato insegnante. Però aveva alcuni problemi: fisici di gracilità e psicologici di introversione. E un’altra di queste persone è stata Luigi Busà: un siciliano di Avola nato nel 1987, e che aveva una tale tendenza a ingrassare che a 13 anni era arrivato a pesare 94 chilogrammi.

Predicatore di una fede non violenta, Bodhidharma visse però in un’epoca in cui la sicurezza dei viaggiatori era minima. Come fare per permettere ai missionari suoi seguaci di difendersi da aggressori pur non portando armi? Inventò il kung fu. Per fare muscoli e acquisire fiducia in sé, Funakoshi intanto che imparava la bella grafia e i classici iniziò fin da ragazzino anche a praticare un’arte marziale che insegnava il padre di un suo amico. Siccome aveva la stoffa dell’insegnante non solo in campo letterario, la sviluppò, e divenne l’inventore del karate moderno. In una palestra di questo karate moderno Busà fu messo quasi a forza dal padre, perché dimagrisse e il paese smettesse di sfotterlo come ciccione. Busà dice che a mangiare deve stare ancora attento. Ma una pizza se l’è comunque concessa per festeggiare la medaglia d’oro che ha fatto impazzire l’Italia, facendoci battere il record di medagliere di Los Angeles 1932 e Roma 1960.

 

In realtà, oggi in Cina si chiama wushu la disciplina sportiva standard che il governo di Pechino codificò negli anni 50, a partire da varie centinaia di versioni popolari esistenti. Attenzione: anche i famosi Boxers della rivolta anti occidentale del 1900 erano in realtà praticanti di arti marziali, per questo definiti infatti “pugili” in inglese. Alla combinazione tra pratica fisica e meditazione filosofica le scuole di arti marziali in Asia hanno spesso aggiunto anche un ruolo da pre-partito politico, e curiosamente qualcosa del genere si ripeté negli anni 80 in Madagascar, quando l’opposizione alla dittatura si organizzò in scuole di kung fu che erano spuntate come funghi in seguito al successo dei film di Bruce Lee. Poiché appunto il termine ufficiale cinese è wushu ma nel mondo la disciplina si è diffusa soprattutto a partire dai già citati film di Bruce Lee, salomonicamente la Federazione Italiana Wushu Kung Fu (FIWuK) utilizza entrambi i termini.

Ma in tutti i paesi di destinazione dei monaci buddhisti questo tipo di pratica si diffuse, assumendo una quantità di nomi e forme diversi. Da quel muay thai che è diventato uno sport relativamente popolare col nome di thai boxing, fino a quel taekwondo coreano che nel 1988 a Seul riuscì a farsi riconoscere come sport olimpico, e così esplose fino ad arrivare ai 70 milioni di praticanti. Anche lì l’Italia spesso prende medaglie, e da lì è venuto il primo oro azzurro di Tokyo 2020 nel 2021, con Vito Dell’Aquila. Ma il karate di praticanti nel mondo ne fa oltre 100 milioni, pur essendo arrivato alle Olimpiadi solo ora.

Ovviamente la lista delle arti marziali si fa ancora più lunga se a quelle che utilizzano solo mani e piedi si aggiungono quelle basate su arco, spada o bastone, e quelle non originarie dell’Asia orientale. Alcune sono sport: dal pancrazio greco-romano al pugilato moderno. Altre sono nate come tecniche di autodifesa, ma si sono poi fatte sport a loro volta: dalla capoeira brasiliana a quel savate che i marinai di Marsiglia nel ’700 avevano imparato da una tecnica che i colleghi genovesi praticavano appunto in “ciabatte”.  Dalla combinazione di varie arti marziali tradizionali, spogliate di ogni orpello filosofico o competitivo e ridotte a mera tecnica di combattimento, sono nate nel XX secolo in ambienti militari cose come il sambo dell’Armata rossa o il krav maga delle forze di difesa israeliane. Combinazioni simili, però al fine di associare all’autodifesa lo spettacolo, hanno pure in tempi recenti dato vita a specialità come la kick boxing o le arti marziali miste.

 

Il complesso di arti marziali un tempo genericamente indicate come “lotta giapponese”, però, è il più iconico di tutti. Probabilmente, proprio perché il Giappone si aprì all’occidente con la sua modernizzazione, mentre la Cina oscillava tra il fanatismo dei Boxers e il caos. E’ tra l’altro approfittando dell’indebolimento cinese che tra 1872 e 1879 il Giappone sfila al Celeste Impero il regno delle Ruykyu: un arcipelago a sud che proprio grazie alla protezione di Pechino era riuscito a mantenersi indipendente, e la cui isola principale è Okinawa.

Tra queste arti marziali giapponesi ci sono innanzitutto la scherma kendo, il tiro con l’arco kyudo e la lotta sumo. E poi il karate, basato essenzialmente su colpi con mani e piedi. Il judo, fatto di proiezioni per gettare l’avversario in terra. Il ju-jitsu, in cui ci sono entrambe. L’aikido, con entrambe più l’uso di armi. Il kobudo: una “antica arte marziale”, questo è il significato esatto del suo nome, che secondo la tradizione fu inventata a Okinawa dopo che i giapponesi ebbero vietato agli abitanti le armi durante un primo tentativo di conquista. 17 sono gli strumenti di uso agricolo e artigianale che gli okinawesi avrebbero adottato allora come strumenti di difesa e offesa alternativi. Tra le quattro principali, tre sono usate dalle Tartarughe ninja: il bastone bo di Donatello; il tridente sai di Raffaello; il battiriso nunchaku di Michelangelo, mentre Leonardo usa la spada katana del kendo. Ma per ricostruire il percorso che porta da Bodhidharma a Busà forse la più importante è la quarta: il tunkwa o tonfa, un manganello con manico che in origine era probabilmente la maniglia di una macina. Sempre più usato dalle forze di polizia di tutto il mondo, il tonfa si manovra infatti con le stesse mosse del karate, e un minimo di adattamento. Gli tsuki, pugni, stretti sul manico diventano colpi; gli uke e barai, parate e spazzate, si fanno tecniche di difesa col bastone.

 

“Sono andato ad Okinawa / che si trova a nord di Giava, / sono andato per poter / imparare il karatè. / Mi hanno messo una casacca, / mi hanno preso per la giacca, / poi non mi ricordo più / ma ero a terra a pancia in giù”, ricordava una famosa canzone dello Zecchino d’oro 1971. La seconda parte in realtà confonde il karate col judo, che all’epoca era molto più diffuso. A parte che già da Tokyo 1964 era sport olimpico, i marinai della Regia Marina di passaggio in Giappone avevano iniziato a impararlo addirittura fine ’800, due ufficiali di servizio a Yokohama avevano preso la cintura nera nel 1889, e una dimostrazione fu fatta davanti a Vittorio Emanuele III nel 1905. Furono pure alcuni marinai a insegnare tecniche di “lotta giapponese” agli Arditi durante la Grande Guerra.

Le proiezioni nel karate ci sono, in realtà. Ma non più del 5 per cento dei colpi, e non sono certo la prima cosa che viene insegnata. Ma la menzione a Okinawa, nella canzoncina dello Zecchino d’oro, è invece addirittura filologica. Nelle Ruykyu appunto esisteva infatti anche un’arte marziale che era chiaramente imparentata con il kung fu, e che per questo veniva chiamata tode: in dialetto locale, letteralmente, “arte cinese”. Come per il kobudo, il folklore assicura che fu inventata dopo il divieto di armi.

Quel che è certo è che tra 1891 e 1892 Funakoshi nella sua scuola inizia a insegnare l’arte marziale locale agli alunni. Quando i suoi allievi vanno a fare il servizio militare gli ufficiali notano subito che hanno una forma fisica superiore. Subito c’è l’idea di adottare quella disciplina nelle scuole superiori di Okinawa, con un minimo di adattamento. Ad esempio, quel “cinese” non sta bene, nel momento in cui tra 1894 e 1895 il Giappone alla Cina fa addirittura la guerra. Ma il giapponese ha un complesso sistema di scrittura di cui fanno parte ideogrammi cinesi chiamati kanji, che possono essere pronunciati in  maniera differente. “De” diventa dunque “Te”: mano. E “To” diventa “Kara”: un concetto di vuoto che è al contempo letterale e filosofico. Si aggiunge “Do”, che dal cinese “Tao” indica una via, anche nel senso di percorso di pensiero. Quindi una scuola, una tecnica, un metodo. Karatedo significa insomma sia un metodo di lotta a mani nude, sia una scuola in cui l’allievo deve fare il vuoto dentro di sé per essere meglio ricettivo.

 

Il tode diventato karatedo è dunque una invenzione di tradizione nella grande rivoluzione modernizzatrice dell’imperatore Meiji. Anche lo stile militare con cui gli allievi prima e dopo l’allenamento devono salutare il Sensei, “Maestro”, deve molto alla mistica del periodo. Un’altra tappa è nel maggio del 1922, quando Funakoshi come presidente della Associazione delle arti marziali di Okinawa è invitato a Tokyo dal ministero dell’Educazione per un saggio alla prima esibizione di atletica, e praticamente è obbligato a restare nella capitale per l’entusiasmo del grande maestro di judo Kano Jigoro. Tra i due nasce una profonda interrelazione, e dal Judo Funakoshi prende il modo di indicare il livello di preparazione con le cinture: bianca, gialla, arancione, verde, blu e marrone per gli allievi: nera di vari dan, “livelli”, per i maestri. Più in generale l’influsso della filosofia Budo, tipica delle arti marziali giapponesi e impregnata di zen, fa evolvere il karate da autodifesa a metodo di sviluppo personale, diffuso in tutto il Giappone.

MacArthur durante l’occupazione militare prima vieta le arti marziali; poi le riautorizza, a patto che virino sullo sportivo; da ultimo decide di farle insegnare il più possibile ai suoi stessi soldati. Nel 1949 nasce l’Associazione giapponese di karate, nel 1957 si fanno i primi campionati giapponesi, nel 1970 i primi campionati del mondo, cui le donne partecipano per la prima volta nel 1980. In Italia le prime palestre aprono nel 1965, ma sempre per l’effetto Bruce Lee i praticanti crescono da 5.000 nel 1970 a ben 100.000 nel 1975. Oggi la Federazione italiana judo lotta karate arti marziali ha circa 120.000 tesserati, 2.600 società e oltre 550.000 praticanti. I karateki dovrebbero essere oltre un terzo del totale.

Viviana Bottaro bronzo nel kata e Luigi Busà medaglia d’oro nel kumite -75 kg ci ricordano che le specialità nel Karate sportivo sono due, ma le basi sono tre. Il kata, letteralmente  “forma”, o “modello”, o “esempio”, è una serie di mosse sistemate in un preciso ordine, a simulare un combattimento contro più avversari che attaccano da tutte le parti. Ce ne sono varie decine, diversificati a seconda degli stili. Cinque di base servono però come base per l’esame di ognuna delle cinture degli allievi. Dal punto di vista competitivo il kata è una sorta di coreografia, che viene valutata dai giudici in modo non dissimile da come si dà il punteggio alla ginnastica o ai tuffi. E il primo karate era solo questo.

Proprio Funakoshi, da buon maestro, ebbe però l’idea che gli allievi avrebbero imparato meglio se prima si fossero concentrati su una mossa per volta. E nacque così il kihon: “fondamenta di base” (ki = radici o fondamenta; hon = basi). Le mosse codificate sono centinaia ma in effetti per iniziare a praticare il karate basta impararne una decina. Tre sono i pugni di base. Poiché sono variamente denominati a seconda degli stili, si conceda all’autore per semplificare di usare la terminologia del wado-ryu, di cui è cintura nera: junzuki = pugno dalla parte della gamba in avanti; gyakuzuki = pugno dalla parte della gamba indietro; kizamizuki = pugno diretto con il braccio avanzato. Caratteristica del pugno del karate è una rotazione partendo dal fianco e poi tornando subito al punto di partenza: così aumenta la forza e la precisione, si evita che il pugno possa essere afferrato, e si impara a dosare il colpo in modo da fermarsi a ridosso del bersaglio o addirittura appoggiando, ma senza far male. Tre sono i calci di base: maegeri = calcio frontale; mawashigeri = calcio circolare; sokuto = calcio col taglio del piede. Anche qui il piede va “caricato” e poi richiamato. Quattro le parate di base: jodanuke = parata alta; gadanbarai = spazzata di braccio bassa; sotouke = ricezione esterna di braccio; uchiuke = ricezione interna di braccio. Tra l’infinità di altri colpi merita forse di essere ricordato lo yokotobigeri: uno yokogeri, sokuto nella definizione di altri stili, dato in “volo” (tobi) dopo uno slancio tipo salto in alto. Al cinema, è il colpo spettacolare diventato simbolo del karate. Ovviamente, in un combattimento vero nessuno sta ad aspettare che un avversario prenda la rincorsa e spicchi il volo senza fare in tempo a scansarsi.

Il kihon è solo preparazione. L’altra gara è il kumite: letteralmente “mani insieme”, indica in teoria ogni tipo di interazione tra due praticanti, ma soprattutto il combattimento. Esteriormente può ricordare il pugilato, ma in realtà assomiglia piuttosto alla scherma. Non c’è k.o. e anzi un punto può essere contato anche solo appoggiandolo o accennandolo. Busà ha vinto la finale 1-0 per uno yuko: punto che si fa infilando un pugno o una percussione. Un calcio vale due punti: wazari. Ma se arriva in testa, viso o collo, o si riesce a fare una qualunque tecnica su un avversario a terra, i punti sono tre: ippon.

 

Funakoshi è famoso anche per aver definito lo stile di karate oggi più diffuso: lo shotokan, basato su posizione basse e stabili. Ma il kumite sportivo si basa invece soprattutto sul wado-ryu, che fa saltellare sulle gambe in stile Cassius Clay, e che fu creato nel 1934 dal Gran Maestro Hironori Otsuka, Di stili ce ne sono una trentina, ma la World Karate Federation riconosciuta dal Cio per semplificare ne contempla quattro: a parte i due citati, lo Shito-ryu, creato nel 1931 dal maestro Kenwa Mabuni, lo stile con più kata; il Goju-ryu, creato nel 1937 da Chojun Miyagi, che combina tecniche dure e morbide.

Viviana Bottaro iniziò come Shotokan ma passò a 16 anni allo Shito-ryu. Busà è Wado-ryu. Il karate dopo questa comparsata a Tokyo sembrava destinato a sparire dal programma olimpico a Parigi, ma tale è stato il suo successo che viene dato per quasi sicuro già un suo recupero per Los Angeles 2028.

 

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