facce dispari

Augusto Basile, maestro del karate senza Olimpiadi

Francesco Palmieri

"A Tokyo 2020 ho visto né più né meno che una sorta di risse con qualche sporadica tecnica. Sono rimasto inorridito quando il nostro campione, Busà, caricava a testa bassa, a capocciate"

Se pensi che tra poco è già settembre, vorresti avere un’altra volta quindici anni per bussare a una palestra e assaporare il sogno che ti hanno suggerito le Olimpiadi a Tokyo, dove s’è visto il karate per la prima volta ai Giochi. Hai visto l’oro vinto da Luigi Busà per il combattimento, il bronzo di Viviana Bottaro nei kata (l’esercizio individuale su sequenze prestabilite) e allora tu, che adesso hai quindici anni, dici perché non provare questo sport che fu – o è – un’arte marziale.

Che riesca o meno a ritornare alle Olimpiadi (non ci sarà alla prossima edizione), il karate beneficerà di una messe di nuovi proseliti grazie a Tokyo 2020, da cui sortirà qualche campione e futuri maestri ancora ignari di diventarlo un giorno. Per salutare chi comincia un sogno bisogna andare da chi ha già sognato e fargli raccontare il sogno suo di tanto tempo prima. Classe 1937, il maestro Augusto Basile, romano di via dei Crociferi dietro Fontana di Trevi, indossò per la prima volta il bianco karategi di cotone nel 1958.

Maestro, ben sessantatré anni sono trascorsi da allora. Cosa ha provato il pioniere del karate italiano nel vedere la sua disciplina alle Olimpiadi? Era ora?

Premettiamo che il karate ha scontato una divisione storica tra due federazioni internazionali che si contendevano l’egemonia. Molti anni fa, da membro della commissione tecnica europea, partecipai a un incontro con il Cio, il Comitato olimpico, in cui fu ribadita la necessità di unificare le federazioni. Ma i giapponesi, che per alcune cose sono un po’ testoni, non riuscirono a mettersi d’accordo. I coreani invece furono più pragmatici: seppero superare le diatribe interne e così ottennero l’introduzione del tae kwon do ai Giochi, bruciando il karate. Personalmente però, sono sempre stato contrario alla partecipazione.

Per quale ragione?

Sono un tradizionalista: vedevo e vedo il karate come un’arte marziale. Ben vengano le competizioni, ma quando gareggiavo io credevamo ancora al motto ‘vincere o morire’…il karate era karate. Il controllo dei colpi, per usare un eufemismo, spesso era proprio al limite: dopo una gara a Parigi, passai la notte intera coi testicoli in un barattolo riempito di ghiaccio per smaltire gli effetti di un calcio.

Non le sono piaciuti i combattimenti di Tokyo 2020?

Le gare portano generalmente a un’evoluzione positiva, basti pensare all’automobilismo sportivo che ha favorito un progresso tecnico importante per motori, pneumatici, carburanti. Per il karate non è stato così: alle Olimpiadi ho visto né più né meno che una sorta di risse con qualche sporadica tecnica. Sono rimasto inorridito quando il nostro campione, Busà, caricava a testa bassa, a capocciate. Splendida solamente la preparazione fisica degli atleti, che ai miei tempi ci sognavamo.

Perché?

Ci affidavamo alla preparazione ginnica dei giapponesi, che si sarebbe rivelata deleteria. Tutti i vecchi karateka si ritrovano con ginocchia, caviglie, mani sfasciate. Gli allenamenti erano estenuanti. Si continuava a oltranza, come capitò a me, anche con un braccio lussato. Però quello era karate. Avete visto a Tokyo tutti quei salti di gioia subito dopo le vittorie? Sono lontanissimi dallo spirito di un karateka. Mi sono riconciliato solo quando un giapponese, vincitore nei kata, per prima cosa è andato dall’allenatore dell’avversario, si è inginocchiato e lo ha salutato, quindi è tornato al centro del tatami e si è nuovamente inginocchiato per ringraziare il pubblico. Questa è l’essenza del karate.

Quella del Bushido, il codice del guerriero. Lo ritiene incompatibile con lo spirito olimpico?

Lo ritengo una cosa diversa: le regole del bushido si sostanziano in coraggio, compassione, rispetto, integrità, onore, autocontrollo, giustizia. Il karate è un’arte marziale. Cominciai a praticarlo perché mi sentivo debole, poi pian piano ne compresi i veri scopi. Non li ho veduti ai Giochi Olimpici.

E la specialità dei kata? Restano, quelle sequenze antiche, l’anima del karate e anche il suo magazzino tecnico.

Nei kata ho constatato qualcosa di meglio, anche se ci sono state interpretazioni troppo teatrali, qualche istrionismo negli sguardi per accattivarsi gli arbitri, perché l’espressione rende punteggio, e certe pause o certi kiai, le emissioni di fiato sonore, fin troppo prolungati. I kata non vengono dai gesti, ma da ciò che sentiamo nel nostro interno durante l’esecuzione di un combattimento contro uno o più avversari, anche se immaginari. Non condivido un karate che ha quale massimo scopo i comportamenti per arrivare primo. Chiamatelo con un altro nome, non karate.

 

Lei è cintura nera nono dan dello stile Wado-Ryu. Quasi al vertice di una piramide lunghissima.

Mi riconobbero il nono dan ma chiesi di restare all’ottavo, perché non mi sarei permesso di condividere lo stesso livello del mio maestro Hiroo Mochizuki. Ora che a lui hanno assegnato il decimo, potrei ricevere il nono. Inoltre sono settimo dan di iaido, l’arte della katana giapponese tradizionale, e sesto di kendo.

Come mai s’interessò alla spada?

Su consiglio del mio maestro. Disse: arriverai a un’età che nel karate non potrai più fare le cose che fai adesso, scegliti una disciplina per allora. E mi avviò allo iaido.

Cos’è una katana?

È lo spirito del Giappone.

E un pugno?

Un gesto atavico dell’uomo per difendersi e colpire.

Chi è un karateka?

Chi aderisce alle regole e al codice della virtù marziale non solo in palestra, ma nella vita di ogni giorno. Rispettare, aiutare gli altri, autodisciplinarsi, preservare una integrità personale.

Ha mai usato il karate fuori del dojo, della sala d’allenamento?

Una volta, quando ero ancora cintura marrone, per scongiurare una violenza su una donna. E in altre due occasioni, da cintura nera secondo dan, per mettere in fuga dei ladri. Da giovane avevo un temperamento fumantino, con la testa di adesso sarei stato più riflessivo. E poi magari oggi se ti difendi rischi la galera con l’accusa di aver fatto male all’aggressore.

 

Lei ha scritto 17 libri sul karate e discipline affini, come le armi di Okinawa. Due suoi volumi, gli unici in lingua italiana, li possedeva Bruce Lee nella sua vasta biblioteca. Li comprò a Roma quando ci andò a girare ‘L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente’.

È una circostanza che mi lusinga, anche perché Bruce Lee è stato una bella mente, un autentico cultore della filosofia e dell’arte marziale.

Quanto conta la conoscenza teorica?

Moltissimo. La cultura è importante: non si può insegnare essendo ignoranti né si può insegnare a essere ignoranti. La pratica senza cultura ti porta a fare gaffe enormi.

Cos’è la tradizione di cui parlava prima?

È comprensione e rispetto per le regole di vita che i nostri avi hanno scoperto, sviluppato e adottato.

Cosa pensa dei giapponesi?

Sono talvolta molto chiusi quale frutto di un’educazione irrigidita. Noi italiani siamo più fantasiosi, ma come rovescio della medaglia anche parecchio meno pazienti. Vogliamo arrivare a concludere: chi va in palestra aspira subito alla cintura nera e una volta ottenuta mira al sesto dan, così può mettersi quella bianca e rossa.

Lei quale cinge?

Sempre e solo la nera.

 

Cosa consiglia a un ragazzo che cerca una buona palestra di karate?

È come giocare alla lotteria: oggi il veleno della pratica è rappresentato dagli enti di promozione sportiva, che distribuiscono titoli di campione e maestro di qua e di là, o qualificano per l’arbitraggio al termine di corsi superficiali. Un maestro, specialmente chi insegna ai giovani e ai bambini, se non è bravo può rovinarti la passione lasciandoti nell’illusione di aver appreso bene.

Chi dovrebbe controllare?

Non spetta alla Fijlkam né al Coni, spetterebbe allo Stato. In altri Paesi c’è un Ministero dello Sport che sovrintende e un esame statale da superare dando prova di preparazione. Ci vorrebbe una qualifica statale, non federale. In questo senso siamo tutti fuorilegge.

 

Ricorda la prima volta che mise piede su un tatami?

Nel 1954. Mio padre prestava servizio nella Marina militare dove aveva conosciuto il judo. Un giorno disse: - Vieni a vedere una palestra. Si trovava al terzo piano di un palazzo a via Sistina e ci insegnava un maestro che sarebbe diventato famoso: Tommaso Betti Berutto. Ricordo ancora che salendo le scale sentivo i tonfi delle cadute… Così intrapresi il judo, finché un giorno del 1958 un campione, Vinicio Volpi, mi chiese se volevo provare il karate. In seguito avrei viaggiato fino a Parigi per prendere lezioni da Mochizuki, e girato l’Italia da Nord a Sud per fondare club e tenere corsi dimostrativi gratuiti. Chi è venuto dopo la mia generazione ha trovato la pappa pronta.

Cosa ricorda del maestro Betti Berutto? Con il suo manuale di judo, ‘Da cintura bianca a cintura nera’, allevò generazioni di praticanti.

Diceva sempre che il miglior sistema per difendersi è tenere la spada nel fodero. Non dubito che avesse ragione, però resto convinto che quanno ce vo’ ce vo’…

Chi è il praticante più esemplare che ha mai conosciuto?

Si chiamava Masao Yabe, maestro di iaido e kendo. Un uomo nobile, una figura del passato dallo spirito elegante. La mattina a Tokyo mi allenavo a casa sua dalle sette alle nove. Poi lui andava alla fabbrica di rossetti di cui era proprietario mentre io tornavo, spossato, al mio alloggio.

 

Il maestro Basile si congeda biasimando chi si lamenta troppo per la calura d’agosto, perché un budoka deve sopportare. “E poi, se quest’estate è più calda è colpa dell’uomo che aggredisce la natura, mentre altri pazzi appiccano gli incendi. Chi si autodistrugge se la prenda con se stesso. L’uomo è veramente stupido”.

Un po’ più di karate non farebbe certo male.

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