Foto LaPresse

L'oro di Busà, il bronzo di Bottaro e la lingua del karate

Maurizio Stefanini

A Tokyo 2020 c'è stato il debutto olimpico di questa disciplina. Piccolo dizionario di base per apprezzare pienamente le due medaglie degli Azzurri

Prima Viviana Bottaro medaglia di bronzo nel kata. Poi Luigi Busà medaglia d’oro nel kumite -75 Kg. Non si sa se il karate resterà sport olimpico anche dopo Tokyo 2020 : probabilmente no. Ma intanto l’Italia ci sta facendo incetta di medaglie, confermando che il buon momento per lo sport nazionale vale anche in questa disciplina, una cui caratteristica è che oltre alle mosse il praticante deve imparare tutta la terminologia in giapponese. Come nel judo, peraltro.

Ovviamente, così come una parola singola non costituisce lingua se non è legata ad altre parole per formare una frase, anche le mosse singole non fanno karate se non sono messe in qualche successione. Il modo più semplice è quello di ripetere in sequenza la stessa mossa: un pugno, un calcio, una parata. Il kihon. Poiché si va spesso avanti e indietro sul tatami della palestra, un modo scherzoso e informale per definirlo per lo meno in italiano è “vasche”. In effetti una traduzione potrebbe essere “fondamentali”: ki significa “fondamenta” o “radici”, hon “basi”; quindi “fondamenta di base”.

Paradossalmente, però, il kihon è una innovazione relativamente moderna, dovuta al maestro Gichin Funakoshi. Vissuto tra 1868 e 1957 e anche istruttore dell’allora principe ereditario Hirohito, Funakoshi pensò infatti che l’allievo sarebbe stato facilitato dall’imparare una per volta le varie tecniche in precedenza incluse nelle successioni dei kata.

Kata, altra parola chiave, significa “forma”, “modello”, “esempio”. È una successione di mosse che non sta solo nel karate ma in tutte le arti marziali giapponesi, e che riproduce un combattimento contro più avversari immaginari, dei quali bisogna parare i colpi e poi contrattaccare.

Di kata ve ne sono varie decine, con variazioni di esecuzione e nome a seconda degli stili. Una serie di cinque kata di base denominati a seconda degli stili Pinan o Heian scandisce, con altre prove, gli esami per le cinture degli allievi.

Bisogna dunque ad esempio imparare il Nidan per passare da cintura bianca a gialla, lo Shodan da gialla a arancione, eccetera. Da nera in poi si inizia con i kata superiori.

Il kata nelle competizioni è una disciplina autonoma, per valutare la quale si valutano tecnica, potenza, kime (= capacità di contrazione e decontrazione muscolare), ritmo, espressività. Per lo spettatore è una specie di coreografia. Il compito dei giudici è simile a quello dei loro colleghi di ginnastica, tuffi o nuoto sincronizzato. Cioè, c’è un certo margine di soggettività.

Kihon e kata però devono servire essenzialmente per preparare al kumite. Te significa mano: lo stesso te di karate, il cui kara è a sua volta lo stesso kara di karaoke. Oke è una “orchestra” in inglese pronunciato alla giapponese. Karaoke è una “orchestra vuota”. Karate è “mano vuota”, “mano disarmata”, “mano nuda”. In effetti il nome completo è karatedo, aggiungendolo stesso do di judo: da una parola cinese che indica un percorso o via, e che indica ad esempio la religione del Tao. Ma può essere una via nel senso di metodo o tecnica: il judo è la via-metodo-tecnica della delicatezza; il kendo la via-metodo-tecnica della spada; il karetedo il metodo (per combattere sottinteso) a mani nude. 

Kumi, invece, è insieme. Kumite è “mani insieme”, cioè combattimento. Mano contro mano, e piede contro piede perché il karate si combatte anche a calci, anche se non si può colpire sotto la cintura: però sono ammesse proiezioni e spazzate per far cadere. Il kumite sportivo è in qualche modo più oggettivo del kata, nel senso che si contano i colpi portati a segno. Infatti Busà ha vinto uno a zero, per un pugno. Attenzione che non solo non c’è il ko come nel pugilato, ma di principio non è neanche necessario toccare. Basta mostrare che il colpo sarebbe entrato, anche se in effetti poi nel calore del combattimento di botte pesanti ne volano, eccome!

In qualche modo, l’assegnazione dei punti è poi più simile alla scherma che alla boxe. Infilare un pugno o una percussione vale un punto (yuko); un calcio ad addome, petto, schiena e fianchi vale due punti (wazari); un calcio a testa, viso o collo, o una qualunque tecnica su un avversario a terra, sia perché proiettato sia se caduto da solo, vale tre (ippon).  A Busà è bastato un pugno.

Di più su questi argomenti: