Il Foglio sportivo

Una lettera d'amore sulla corsa

Mauro Berruto

Il nuovo libro di Mauro Covacich, tra fatica immensa e libertà

Un libro o un album di fotografie? Non c’è neppure un’immagine nelle 159 pagine di Mauro Covacich, Sulla corsa (La nave di Teseo, 2021) eppure più che leggerlo questo saggio lo si guarda. È saggio, peraltro, la definizione giusta? O è una non-fiction novel che raccoglie in ordine sparso i fatti di una vita che si intrecciano con la corsa? Nella non-fiction novel, genere letterario inaugurato da Truman Capote con A sangue freddo, il pronome personale io dovrebbe scomparire per lasciare spazio al racconto dei fatti, ma qui l’operazione è impossibile, perché l’io narrante coincide con l’autore e i fatti sono le sue esperienze, momenti che lì per lì sembrano insignificanti e, invece, sono illuminazioni di quelle che cambiano la vita. Mauro Covacich descrive il suo libro come un’autobiografia atletica. Definizione intelligente, ma credetemi, leggere Sulla corsa è proprio come sfogliare un album di fotografie, che, come quelle che conserviamo fisicamente e non nel cloud, sono in ordine non-lineare. Si parte dal 1976, quando Mauro Covacich, undicenne, arriva terzo a una gara podistica organizzata dall’azienda dove lavora il padre.

 

 Qui, perdonatemi per un istante, mi vengono i brividi, perché spesso ho raccontato come proprio in quell’anno io, settenne, ricordi un televisore in bianco e nero sul frigorifero della cucina che trasmetteva le immagini dei perfect ten di Nadia Comaneci ai Giochi di Montreal e che, ne sono convinto, determinò il mio futuro nel mondo dello sport. Covacich ci racconta come in quel momento si innamorò perdutamente della corsa e come cambiò la sua vita. Poi, pagina successiva, la seconda fotografia, quarant’anni dopo. La sua ultima gara, la Cortina-Dobbiaco. Sarà fermato dai medici: problemi al cuore, niente più corse. 
In mezzo, tante istantanee che ci fanno muovere nello spazio e nel tempo con l’unico collegamento di parole che, anche loro, si rincorrono, fra la fine del capitolo precedente e l’incipit di quello successivo. Covacich ci invita a casa sua a vedere le fotografie di una carriera di scrittore-runner, tenendoci inchiodati a una certezza: farà abbastanza male. Non ci risparmia immagini di delusioni, dolori, gente piegata in due che vomita per la fatica. Inserisce, qua e là, fotogrammi di pura bellezza: sette meravigliose mezzofondiste ungheresi che si allenano lungo un fiume (e alle quali, scopriamo, si ispirerà per scrivere il suo romanzo A perdifiato), la grazia sui blocchi di Marlene Ottey, l’abbraccio con i suoi idolo Haile Gebreselassie e Stefano Baldini. Però, se uno fa i conti, restano più sudore, fatica e dolore che serenità e bellezza. Perché allora correre, se la corsa genera tutto questo, chiamiamolo così, disagio? È una specie di sindrome di Stoccolma? Ci si innamora del proprio aguzzino? Non c’è dubbio che Sulla corsa sia una lettera di amore che fa venire in mente le parole di Kobe Bryant per il suo addio al basket: “Ci siamo dati l’un l’altro tutto quello che avevamo”. Dal primo bacio, la gara aziendale del 1976, all’addio forzato nel 2016 è un flusso di coscienza struggente e apparentemente incomprensibile a chi guarda da fuori. Un po’ come la sorella di Covacich che al termine di quell’ultima gara di Mauro, non si capacità di tutte quelle persone piegate in due da fatica e dolore e che si definiscono “amatori”. Gli domanda: “Amatori di che cosa?”. Già, amatori di che cosa? Amatori di quel gesto che distingue la philosophia, l’amore per il sapere, dalla philoponia, l’amore per il pónos, lo sforzo, la fatica, perfino il dolore. Era così anche per gli atleti di Olimpia e fra le immagini di Covacich c’è spazio per una foto ingiallita di 2.800 anni fa: la prima edizione unofficial dei Giochi Olimpici, descritta nell’Iliade, i funerali di Patrocolo, dove la gara di corsa la vince l’underdog Odìsseo.

 

In questa “autobiografia atletica” c’è spazio anche per allenare i fondamentali. Covacich suggerisce un metodo: leggere Alan Sillitoe, La solitudine del maratoneta, Mordo Lodoli, Crampi, William Goldman, Il maratoneta e, soprattutto, Jean Echenoz, Correre: la vicenda umana e sportiva di Emil Zatopek, l’atleta che più al mondo è icona di philoponia. “Non ho talento a sufficienza per correre forte e sorridere contemporaneamente”, diceva Zatopek a chi gli chiedeva perché avesse sempre sul viso una smorfia di dolore. Uno dei maestri di Zatopek, il finlandese Paavo Nurmi, correva sempre con il cronometro in mano, altro che le cuffiette nelle orecchie come Haruki Murakami, collega scrittore-runner di Covacich e autore de L’arte di correre. Covacich, quella musica nelle orecchie, non gliela perdona: quando si corre bisogna sentirsi e l’unica musica è quella del proprio respiro, del gemito di chi ti corre a fianco o del ritmo leggero di chi vola via sull’asfalto. È una cosa molto seria la corsa, sia per chi vince medaglie olimpiche sia per quel vecchietto che Covacich guarda dalla finestra prima di regalarci l’ultima immagine. Ogni corridore ha una propria andatura, frutto di stratificazioni del tempo, di chissà quali dolori da anestetizzare o di chissà quali abitudini. Haile Gebreselassie, per esempio, corre con il gomito sinistro curiosamente vicino al corpo, perché da bambino ci teneva i libri di scuola che ogni giorno raggiungeva di corsa, otto km all’andata e otto al ritorno. Quel vecchietto che Covacich guarda dalla finestra, nella sua andatura sbilenca tiene insieme dignità e volontà. L’ultima illuminazione. Chissà forse nella testa dello scrittore triestino ripassa l’immagine di Kenenisa Bekele, uno degli eredi di Haile Gebreselassie visto correre ad Addis Abeba, proprio nella palestra del maestro. Era nata lì un’idea: 42,125 metri corsi su un tapis-roulant indossando solo sospensorio, pantaloncini, cardiofrequenzimetro e una maschera con tubo per misurare il consumo di ossigeno. Il titolo che Covacich aveva scelto per quella sua video/installazione e performance artistica era L’umiliazione delle stelle. Niente umiliazione, ora. Anzi, libertà. Perché in quella tuta di felpa, non più materiale tecnico, che Covacich indossa dopo aver visto quel vecchio dalla finestra, c’è un enorme senso di libertà che si manifesta scendendo in strada e “assaporando la sensazione dei piedi in volo, il breve vuoto prima di ogni atterraggio”. L’ultima immagine, l’ultima riga di questa lettera d’amore, è quella che vediamo e leggiamo come fossimo lì: il suo avviarsi piano piano verso il lungotevere, con il proprio nome e cognome scritti per sicurezza su un foglietto in tasca, per unirsi alla “colorata schiera dei corricchianti”. 

 

Felice.

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