Una splendida mattata. Al Tour Hirschi rende onore alla "solitudine ancestrale dei Pirenei"

Tadej Pogačar vince la nona tappa della Grande Boucle battendo allo sprint Primoz Roglic, nuova maglia gialla. Terzo lo svizzero dopo quasi novanta chilometri di fuga

Giovanni Battistuzzi

Tra la cima del Col de la Hourcère e l'inizio del Col de Marie Blanque ci sono poco meno di sessanta chilometri. Qualcuno è in salita, diversi in discesa, la maggior parte di un lungo falsopiano che un po' sale, un po' scende e spiana mai. In cima al primo grande colle pirenaico della nona tappa del Tour de France Marc Hirschi ha un minuto e venti sui primi inseguitori, poco meno di due minuti sul gruppo. Mancano una novantina di chilometri all'arrivo. Il comune buon senso imporrebbe allo svizzero di rallentare e aspettare qualcuno, qualche corridore con il quale condividere lo sforzo. Ma il comune buon senso quasi mai c'azzecca quando si tratta di ciclismo. E allora Marc Hirschi si affida all'istinto, quello che gli sussurra all'orecchio che provare la mattata non è cosa stupida, che tentare l'improbabile, a volte, è la scelta giusta. D'altra parte Fabian Cancellara glielo aveva ripetuto più volte: uno come te, uno che va forte ovunque, può conquistare tutto. L'ex campione svizzero ha detto di Hirschi che "ha il potenziale di Kylian Mbappé, un fenomeno. Prima se ne rende conto, meglio è". Perché, come ogni ragazzo intelligente, il ventiduenne svizzero sa di essere alle prime armi e che "ancora devo capire che corridore posso essere", ha detto a Cyclingnews dopo il secondo posto nella seconda tappa.

 

Marc Hirschi, in cima al Col de la Hourcère non si è voltato, non ha aspettato nessuno, ha filato dritto. A 1.443 metri sul livello del mare ha deciso che era il momento di seguire i consigli di Cancellara. La montagna è sempre fonte di buone intuizioni e di splendide mattate. Quella dello svizzero è durata una novantina di chilometri, un paio in meno di quelli necessari per rendere l'improbabile possibile.

 

Tutta colpa di Egan Bernal, Mikel Landa, Tadej Pogačar e Primoz Roglic (in ordine alfabetico), ossia i quattro che che sul Col de Marie Blanque hanno deciso che era il momento giusto per rischiare di capire chi era in palla e chi no. Tre scatti di Pogačar, uno di Bernal, un allungo di Roglic hanno scremato un po' i pretendenti alla vittoria finale di questo Tour de France, hanno evidenziato che qualcuno sta peggio di altri, ma che, tutto sommato, nessuno può dirsi davvero superiore agli altri. E questo è un bene, perché, se aveva ragione lo scrittore francese Georges Perec a dire che "un grande giro non è poi diverso da un buon romanzo di genere, un thriller o un giallo", sapere il nome del colpevole, o in questo caso del vincitore, a un terzo della trama sarebbe un peccato.

  

Marc Hirschi questa trama l'ha provata a ravvivare, a renderla folle. C'è quasi riuscito. L'ha fatto con una mattata solitaria che quasi è andata a buon segno. L'ha ravvivata poi con uno sprint disperato che solo per qualche decina di centimetri non è risultato vincente. La distanza tra l'improbabile e il reale oggi è stata questa: qualche decina di centimetri. Quelli che sono bastati a Tadej Pogačar e Primoz Roglic a superare lo svizzero. Hirschi ha reso onore a quella che René Vietto, corridore tra gli anni Trenta e Cinquanta, definì la "solitudine ancestrale dei Pirenei". E questa è la cosa più importante.

 

Ha vinto Pogačar, Roglic è in maglia gialla, Hirschi è stato premiato con il numero rosso. Rosso come il colore della combattività, rosso come il colore della rivolta al comune buon senso.

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