L'importanza di chiamarsi Ibrahimovic

Lo svedese tornerà a vestire la maglia del Milan. Sei mesi di contratto. E, se tutto va bene, l'estensione dell'accordo. Buoni motivi per credere in un ritorno soddisfacente

Giovanni Battistuzzi

Il campo di San Siro lo calpestò per l'ultima volta, almeno in rossonero, il 13 maggio 2012. Non doveva essere un addio, la sua idea era quella di ritornarci dopo l'estate, per riprovare a riprendersi ciò che non era riuscito a cogliere per la prima volta dopo dieci anni: la vittoria del campionato. Quell'insuccesso lo visse come un'onta, qualcosa da vendicare subito. Non ci riuscì. Il 18 luglio si ritrovò a Parigi, con la consapevolezza di non poter far altro e con la speranza che, prima o poi, quell'insuccesso l'avrebbe in qualche modo lavato via dal pedigree. Milano e il Milan per Zlatan Ibrahimovic non sono mai stati e mai saranno un posto come un altro e una squadra come un'altra. Rappresentano un sorta di ossessione, un nodo al fazzoletto, una volontà di rivalsa verso ciò che non è stato.

 

Quel 18 luglio del 2012 Ibra si ritrovò suo malgrado con la maglia del Paris Saint-Germain addosso. L'ultimo Milan berlusconiano vincente stava per essere smantellato definitivamente, fare cassa era il “diktat” presidenziale e lui, a 31 anni non si sentiva pronto ad abbracciare la mediocrità di un calcio lontano dalla Champions. Vinse anche a Parigi. E pure a Manchester, sponda United, sebbene non quanto avrebbe voluto.

 

Zlatan Ibrahimovic quel nodo al fazzoletto lo scioglierà presto. Intanto sei mesi. Poi chissà. Il ritorno dell'attaccante svedese al Milan ha una data di partenza, primo gennaio 2020, e una data di scadenza, 31 giugno 2020. Ma potrebbe durare di più. La dirigenza rossonera e l'agente del giocatore, Mino Raiola, stanno lavorando sulle clausole da aggiungere al contratto, e una di queste riguarda la possibilità di un rinnovo. Un'estensione del dominio della lotta rossonera, per dirla con il titolo di un libro di Michel Houellebecq.

  

Troverà poco o nulla di ciò che aveva lasciato. Le avvisaglie di disarmo si sono trasformate in una resa effettiva, l'euforia del Diavolo si è spenta. Silvio Berlusconi non c'è più e neppure Adriano Galliani. I compagni di allora sono pressoché tutti emigrati o hanno scelto altre strade, altre vite. Neppure le strisce della maglietta sono le stesse, si sono ristrette. Solo lo sponsor è rimasto uguale.

  

E così a trentotto anni e dopo due stagioni passate a corricchiare e segnare nel buen retiro di Los Angeles, nella Major League Soccer, Ibra ha deciso che la pensione dal campo è rimandabile e la sua “missione di salvatore”, almeno per quanto riguarda la patria rossonera, è un bel motivo per allacciarsi gli scarpini e provare a buttare ancora qualche pallone alle spalle dei portieri avversari.

 


Zlatan Ibrahimovic con la maglia del Milan (foto LaPresse)


 

E così a trentotto anni Ibrahimovic riproverà a riprendere ciò che aveva interrotto il 23 marzo 2018, quando era partito da Manchester per approdare a Los Angeles, ossia costruire la sua leggenda, ritenersi, a torto o a ragione, il migliore di tutti. Perché se a trentotto anni Zlatan ha deciso di ritornare in Europa, in Italia e al Milan è perché ritiene di poter essere utile alla causa rossonera. Una causa ancora dolorante per le cinque palle recuperate alle spalle di Gigio Donnarumma domenica scorsa a Bergamo contro l'Atalanta. Una causa depressa e, apparentemente, incapace di trovare una rotta, una luce da seguire in mezzo alla nebbia, un direttore d'orchestra che possa dettare il tempo. 

 

“Hai sentito quel che stavo suonando?”.

“Non mi sembrava educato ascoltare, signore”.

“Me ne dispiace per te. Io non suono con molta precisione – con molta precisione può suonare chiunque – ma con grande sentimento. Per quel che riguarda il piano, il sentimento è il mio forte. L'esattezza scientifica la riservo per la vita”.

 

Le parole che Algernon rivolge a Lane all'inizio del primo atto della pièce L'importanza di chiamarsi Ernesto, non saranno probabilmente dissimili, almeno per concetto, da quelle che Zlatan userà al suo ritorno a Milanello, quando si troverà davanti a compagni smarriti e in attesa di essere guidati verso qualcosa. Perché, almeno per Anders Svensson (ex difensore, nonché capitano, della Nazionale svedese), Ibra “non è un calciatore, è un capo branco, uno che volenti o nolenti sei spinto a seguire. E con lui non sei mai nolente”. Più che i gol, più che gli assist, più che le prestazioni, al Milan servono gli sguardi di Zlatan, la sua capacità di prendere i compagni e sbatterli al muro, rinfacciando loro la necessità di avere rispetto per l'unica cosa importante del calcio: “Che non è partecipare, è vincere”.

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