Il 24 agosto Andrew Luck (nella foto Reuters dopo una partita persa lo scorso 12 gennaio) ha annunciato il suo addio al football a soli 29 anni

La stanchezza del Quarterback

Si può smettere di giocare al culmine della carriera? Andrew Luck lo ha fatto, nessuno lo ha capito davvero

Itifosi degli Indianapolis Colts hanno fischiato il quarterback Andrew Luck che usciva per l’ultima volta dal Lucas Oil Stadium. A lui è spiaciuto, i suoi compagni si sono imbestialiti, i commentatori l’hanno trovato un gesto disgustoso – e dal punto di vista del decoro e della creanza è evidente che hanno ragione – ma è soltanto l’atroce legge dell’amore condizionato che regola la vita di ogni atleta, anche il più vincente, il più amato. L’ammirazione dei tifosi è una variabile che dipende dalle prestazioni: quando la performance viene meno, svanisce. In questa severa logica della tifoseria, Luck si è macchiato della prestazione peggiore, cioè quella di rinunciare per sempre a ogni prestazione, di ritirarsi dal football professionistico a 29 anni dopo stagioni stellari che nella testa della gente equivalevano a promesse di stagioni ancora migliori, fino al giorno in cui avrebbe cambiato squadra, andando a fare felici altri tifosi, oppure si sarebbe ritirato per sopraggiunti limiti di età. Luck ha spezzato la catena della normalità facendo una cosa strana: ha scelto di ritirarsi. Stava male, d’accordo. La lista di infortuni e problemi fisici che ha avuto negli ultimi quattro anni è lunga e include legamenti logorati, cartilagini perdute, articolazioni dislocate e muscoli strappati, ma niente che non potesse essere superato con forti dosi di sofferenza e cortisone. E poi chi è che non s’infortuna in uno sport fondato sull’esasperazione dello scontro fisico? L’aspettativa di default per un giocatore di football è che faccia qualsiasi cosa per trasformare il suo corpo in una macchina capace di resistere a tutto, e se magari il talento c’è ma il fisico non tiene non ci si arriva nemmeno a sfiorarla, la Nfl, figurarsi a diventare una prima scelta nella draft, com’è successo a Luck nel 2012, quando dalla squadra universitaria degli Stanford Cardinal è approdato a Indianapolis. Con quei fischi, i suoi tifosi lo hanno inchiodato alla colpa di non essere stato forte e coraggioso abbastanza (“uomo abbastanza” si sarebbe detto prima della stagione dell’intontimento generale attorno alla parità di genere nello sport) per rialzarsi un’altra volta, per superare un altro ostacolo, per mettersi alle spalle un altro infortunio.

 

L’impianto narrativo che glorifica lo sport, e specialmente il football americano, non è fondato sul talento, che se uno non ce l’ha non se lo può dare, ma sulla tenacia, sulla perseveranza, sulla volontà, sulla resilienza, sulla capacità di spingersi oltre i propri limiti, di resistere a ogni evento avverso e a ogni tentazione. La figura generalmente più detestata nello sport è l’atleta talentuoso che non persevera, che non dà tutto, doppiamente colpevole perché spreca i doni che si è trovato addosso senza meritarli. Anche per questo motivo Mario Balotelli è diventato un antieroe. E per motivi non dissimili Luck è stato fischiato dai suoi tifosi nel giorno dell’addio. Nel football americano l’immagine della perfezione eroica è incarnata da Tom Brady, che non ha soltanto un braccio per cui ringraziare il cielo, ma è un maestro della disciplina, lavora con impeccabile diligenza, segue una dieta ossessivamente controllata, beve 37 bicchieri d’acqua al giorno, ha portato la cura del fisico in un nuova dimensione, brevettando assieme al suo team di trainer-stregoni una tecnica di ringiovanimento dei tessuti muscolari che poi ha messo sul mercato per alimentare il suo impero. A 42 anni suonati è ancora lì in mezzo al campo, affamato del prossimo Super Bowl. Un recente sondaggio della Nfl dice che Brady è il giocatore più amato da tutte le generazioni, dai baby boomers alla generazione Z. La leggenda dei quarterback ha speso belle parole per il suo collega che si è ritirato anzitempo, ma Luck è l’opposto di Brady. E’ un ragazzo fragile, che non ce la faceva più, uno che “si è tolto un enorme peso dalle spalle” quando finalmente ha preso la decisione di smettere, è uno preoccupato dei disastri fisici che questo sport causa non per accidente ma per essenza. Ogni giocatore di football convive con un’ombra che si chiama encefalopatia traumatica cronica, la sindrome del pugile, che ha già imposto un altissimo tributo di vite, accorciate o rovinate per quei traumi continui nella mischia. Ma non era nemmeno questo, perché un giocatore professionista lo sa che sta facendo un lavoro altamente rischioso, come quelli che pescano i granchi reali nello stretto di Bering, anche se la remunerazione è radicalmente diversa. Luck era stanco. “Sono stanco, e non soltanto nel senso fisico”, ha detto in una conferenza stampa che ha lasciato di stucco e lasciava intendere una specie di stanchezza esistenziale, un’incapacità di reggere il livello di perfezione che tutti si aspettavano da lui. Il mercato della Nfl gli ha permesso di fare questa scelta. Dal 2016, quando ha firmato il nuovo contratto, ha guadagnato 97 milioni di dollari, cifra che toglie ogni preoccupazione circa il futuro. Non ha il problema di cosa andrà a fare dopo, e poi lo ha già detto anni fa che vorrebbe insegnare Storia alle scuole superiori, un altro desiderio strambo che ha fatto storcere il naso a chi lo vorrebbe vedere allenare, commentare, pontificare di football. Luck era stanco, ma i suoi tifosi non l’hanno capito, e lo hanno fischiato proprio la volta in cui più di tutte avrebbe meritato di essere applaudito.

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