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Should I stay or should I go? Il football americano è un colpo di testa

Leonardo Rafanelli

Dopo Colts Andrew Luck lascia anche Luke Kuechly. “Bisogna essere veloci, duri e fisici e io non credo più di esserlo”. La difficoltà di continuare a inseguire il complicato fascino della palla ovale

Se si visita il sito internet della Schutt, una delle principali aziende produttrici di caschi per il football americano, la prima cosa che appare è un disclaimer, come quello dei siti per adulti. Solo che in questo caso non si richiede di essere maggiorenni, ma di tenere ben presenti le seguenti parole: “Nessun casco può proteggere da infortuni seri al cervello e al collo, comprese paralisi e morte. Per evitare questi rischi, non intraprendete lo sport del football”.

   

È un frase pesante, perentoria, specie se a metterla sul piatto è un soggetto che vende attrezzi per praticare questa disciplina. Ma in fondo è cosa nota: il football americano è una raffinatissima battaglia strategica, che però si gioca spingendo il fisico ai limiti delle sue possibilità, azione dopo azione.

  

Quanto possa essere dura lo abbiamo visto bene, in questa stagione, che in un certo senso è finita come era cominciata: l’estate scorsa, durante le amichevoli che precedono il campionato, il quarterback degli Indianapolis Colts Andrew Luck, uno dei migliori, ha deciso di ritirarsi a 29 anni. E lo scorso 15 gennaio, durante le fasi finali della postseason, un altro addio ha lasciato tutti di sasso: quello di Luke Kuechly, linebacker dei Carolina Panthers, che a 28 anni era già una leggenda, e che ha deciso di fermarsi qui. “Da quando sono bambino – ha spiegato – conosco un solo modo di giocare a football. Bisogna essere veloci, duri e fisici e io non credo più di esserlo. Vorrei continuare, ma nel mio cuore, so che è la cosa giusta da fare”.

      

 

Certo, dietro le quinte della battaglia sul campo, ce n’è un’altra per ridurre al minimo i rischi, che fa leva su regolamenti e tecnologie. La NFL ha rifiutato a lungo di riconoscere pubblicamente il legame tra i colpi presi in campo e l’encefalopatia traumatica cronica, la stessa dei pugili, che ha colpito alcuni giocatori dopo il ritiro. Ma da un po’ le cose sono cambiate. Dalla scorsa stagione, ad esempio, è stata introdotta la regola contro le entrate a testa bassa col casco usato come ariete. La sicurezza è migliorata e migliorerà ancora, ma il football resta uno di quegli sport in cui si fanno i conti con le varie sfaccettature della fragilità umana, e non solo per quanto riguarda il fisico.

  

Nel bene e nel male, è un scelta di vita radicale. Già al liceo, se si vuole giocare, si comincia a pensare e a comportarsi in modo diverso rispetto ai coetanei, con sessioni di allenamento che cominciano alle 6 del mattino. E si tratta comunque di una scommessa, perché gli atleti che delle squadre dei college universitari riescono ad approdare ai professionisti sono meno del 2 per cento.

 

Che cosa vuol dire avercela fatta, essere persino diventati dei campioni, e poi decidere che può bastare così? Luck e Kuechly lo sanno. Certo, nella NFL si guadagna bene, gli atleti sono tra i più pagati al mondo, e si può mettere da parte un bel gruzzolo anche con pochi anni di gioco. Ma non è solo una questione di soldi. Non si spiegherebbero, altrimenti, le carriere di quei giocatori che non mollano mai. Come il 41enne Drew Brees, quarterback dei New Orleans Saints, che quest’anno ha battuto l’ennesimo record, quello per il maggior numero di passaggi touchdown. O come il 42enne Tom Brady, quarterback dei New England Patriots, che ha vinto sei Super Bowl (più di chiunque altro), e che nonostante una bruciante sconfitta ai playoff contro gli sfavoriti Tennessee Titans ha già detto che di ritirarsi proprio non ne vuole sapere. Di lui George R.R. Martin, autore della nota saga da cui è stata tratta la serie “Game of Thrones”, e dunque esperto di “creature soprannaturali”, ha detto che pare aver fatto un patto col diavolo per rimanere giovane.

   

La verità è che dietro ci sono invece scelte umane, profonde. Nel football se ne vedono di tutte. Cose molto brutte come il gesto di Myles Garrett, che quest’anno, durante una lite, ha tolto il casco a Mason Rudolph e glielo ha sbattuto in testa. E anche cose che in qualche modo colpiscono in positivo, come le lacrime di JuJu Smith-Schuster, versate qualche giornata prima per lo stesso Rudolph che si trovava a terra privo di sensi, dopo un placcaggio molto duro.

 

 

Tutto è finito bene: Rudolph si è rialzato ed è tornato ad allenarsi e a giocare. Qualcun altro ha invece deciso di fermarsi. Ma smettere e continuare sono due cose che fanno parte di questo gioco. Quale sia la scelta giusta è una questione intima, personale. Come in tante cose della vita. E forse sta anche in questo il fascino complicato del football.

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